sabato 2 dicembre 2017

Speriamo Bene! L’Orchestra di Lecce e del Salento nella casa del Teatro Apollo

 
Il maestro Daniele Berardinelli
Speriamo "Bene": il Salento ha una nuova Orchestra! Anzi no: i maestri di quella che era l'Orchestra Sinfonica della Provincia di Lecce, titolata poi a Tito Schipa con l'acquisizione della qualifica ICO, sono adesso riuniti in cooperativa, hanno fondato una loro orchestra con l'obiettivo di salvaguardare un patrimonio musicale costruito in quarant'anni di attività concertistica e operistica. Una sorta di “autogestione”, di presa in carico del proprio destino umano e artistico. Non ci sarà più bisogno di elargire l'assegno a consigli di amministrazione di nomina politica, il lavoro torna nelle competenze e c'è da rimboccarsi le maniche per tornare ad avere il riconoscimento ministeriale. Intanto, l'attività si è avviata grazie ad un finanziamento della Regione Puglia e cosa molto importante l'Orchestra di Lecce e del Salento (Oles l'acronimo), non avrà più bisogno di peregrinare in cerca di una sede per costruire la sua musica, la casa c'è, è il Teatro Apollo.
Un bel teatro, comprato dall’Amministrazione della Città di Lecce per volontà e piacere del sindaco Adriana Poli Bortone. Ci teneva tanto che voleva anche abbattere il Teatro Politeama per dare lustro al “suo” con la scusa di tirar fuori il fossato del Castello Carlo V.
Comprato sì, ma non tutto intero, una parte dello stabile è rimasta fuori dal concordato d’acquisto, chissà perché (?!). Può sembrare non importante ma in realtà è cosa molto grave. Un teatro è un corpo unico, una macchina concepita è strutturata secondo canoni di utilità e funzionalità per cui, non può perdere ciò che è stato costruito alle spalle del palcoscenico, lì ad esempio erano allocati i camerini, i sevizi e le utilità di scena, oggi il palco confina con la proprietà di un privato e prima o poi quel privato creerà problemi tipo: “Il volume è troppo alto, mi vibrano le pareti”. Ma, si sa, la nostra è la città della superficialità e del pressappochismo e se un “Sindaco” “decide” nessuno si mette a sindacare.
Ma forse è meglio tornare a parlare di musica e di una delle ultime produzioni della Oles, una perla, un vero e proprio biglietto per il futuro.
* * *
"Parlami! Parla, continua! Io vivo in questo suono", nel chiaro ancora imbustato del Teatro Apollo, lo scorso mercoledì 22 novembre 2017 si sono palesate le molte voci di Carmelo Bene interprete, su banda sonora digitale, del suo “Manfred”.
L’orchestra è tutta composta sul proscenio, minimo lo spazio sul limine tanto che, i musicisti, sembrano caracollare in platea, una percezione amplificata poi, dai diversi posizionamenti del coro, nel corso del concerto.
In questa prossimità con il pubblico l'Orchestra Sinfonica di Lecce e del Salento ha celebrato e evocato la presenza di chi, in vita, è stato fautore dell’assenza, della scomparsa di se, di un teatro liberato di scene, costumi, luci, “non più messa in scena, ma abbagliante messa in voce”.
Ispirato dal poema drammatico di George Byron, il Lord del romanticismo inglese, Carmelo Bene se lo cuci addosso, traducendolo. La prima del Manfred si tenne nel 1978, a Milano, alla Scala.
CB fece "irruzione" nel tempio dell'Opera italiana "armato” di un impianto fonico, non era mai accaduto prima. Chissà con quanti watt inaugurò il suo periodo concertistico. Carmelo Bene è stato un grande consumatore di potenza fonica, ne aveva bisogno per esaltare la forza e la versatilità della sua voce-orchestra capace di saettare in alto con gli alti più alti per poi vertiginosamente venire giù fino al più lieve dei sussurri.
A Cursi, nella cava che lo ospitò per i "Canti Orfici", nel 1992, di watt ne pretese un’infinità, la metà dell'impianto fu stesa sotto il palco per farlo vibrare così che, il maestro, si sentisse completamente avvolto dalla sua voce, tornava in pubblico, nel Salento, dopo anni di assenza, doveva esser chiaro, forte, diretto uscir fuori dallo sprofondo della terra con le parole di Dino Campana.
All’Apollo son bastate due casse, il giusto, per portare al pubblico la voce di Manfredi, quella del fantasma di Astarte (interpretata da una sempre sorprendente Carla Guido) e quelle degli spiriti che abitano quest'opera composita, definita dallo stesso Byron "folle, metafisica ed enigmatica".
La musica è quella composta per il Manfred nel 1848 da Robert Schumann, un altro grande romantico; un'opera che trova accordo e compimento nel progetto della Oles. Il vero dono della serata è infatti l'Orchestra stessa e le sue scelte, l’indirizzo che la Oles si è dato mostrando una forte tensione contaminativa che lascia sperare ad un futuro di Teatro-Musica da alimentare con scelte ancora più coraggiose.
Non è stato semplice isolare la voce di Bene (ma il digitale, sappiamo, fa magie), renderla materia di uno spettacolo ancora vivo; uno spettacolo che in assenza del suo artefice, con questa nuova edizione meriterebbe più regia e certo una tournée. Rievocare, proporre la voce e la straordinaria cultura di Carmelo Bene pare un atto di sovversione, oggi, ma il teatro, è l'ultima enclave di resistenza alle mute derive dello spettacolo e chissà quanto pubblico è potenzialmente in attesa di poter risentire l'emozione del contatto con la voce, le voci di CB. Un lavoro utile anche per il Teatro Apollo, d'indirizzo, ancora una volta, sulla vocazione che un teatro nel contemporaneo deve avere... Magari tornando intero per poter divenire una vera residenza teatrale, insomma, speriamo Bene!

mercoledì 15 novembre 2017

Nei varchi del bianco



Lecce, domenica 12 novembre 2017
Ai Cantieri Teatrali Koreja, per FRAME*

Emanuela Pisicchio in FRAME la foto è di Alessandro Serra

Lei, in rosso, graffia il muro. Forse, solo questo ci resta: graffiare i muri, in questa deriva del Tempo, in una Storia, la nostra, ormai ostaggio della disillusione.
Il realismo nella pittura di Edward Hopper celebrando nella luce il quotidiano ci ha mostrato la malinconia, la solitudine, il silenzio, il bilico di un Mondo incapace di dare forma all’attesa.
Lui, ribelle e cortese, come l’Arlecchino che compare in “Frame”, ci sollecita a dissentire, ad avere coraggio, a trovare la distanza nello sguardo per superarla, per tentare un’altra via.
Non è monito l’arte?
Credo sì, è in quel monito, nello scorgerlo sotteso all’opera, che personalmente cresco la passione d’essere spettatore, pubblico, nel portarmi a casa l’esperienza della condivisione di uno spettacolo.

C’è da sentirsi confortati ogni volta che il teatro è nella necessità di interrogarsi, di confrontarsi con il pubblico oltre la parola; di star solo, con il gesto e con il corpo dell’attore in scena, solo, preso nel fare e disfare, preso a seminare segni, minute significazioni, sospensioni, attimi, desideri, pudore.
Guardando lo spettacolo di Koreja con la regia di Alessandro Serra, ho pensato ad uno spettacolo dei primi anni Ottanta “Lo spazio della quiete” del Teatro della Valdoca, anche quello un lavoro ispirato dalla pittura, ma, in “Frame”, la quiete è cosa lontana e anche il silenzio è pieno di rumore, come l’animo degli attori-personaggi che, evocati dalla pittura del maestro americano, si materializzano di frame in frame, in un bianco quadrato di scena che svela varchi inaspettati.
Cosa c’è meglio della pittura per sollecitare la tensione contemplativa, per lasciare lo spettatore solo - anche lui - al cospetto dell’opera?
Ecco, ci ritroviamo: ci siamo noi nei passetti degli attori, noi persone, noi gente. Nella nudità, nelle attese, nella paura, nell’inquietudine e nell’impossibilità del contatto. L’andare e il tornare e ancora l’andare nel dettato del Tempo fino al limite del baratro.
Nell’America di Hopper c’è tutto ciò che siamo, ciò che siamo voluti diventare e ciò che maledettamente pervade ogni istante di una Storia incapace di tessere storie.

*  *  *
 

*In scena Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio, Giuseppe Semeraro. La regia, le scene, i costumi e le luci sono di Alessandro Serra.
La realizzazione scene è di Mario Daniele. La produzione dello spettacolo è di Koreja.

Mauro Marino
 

martedì 17 ottobre 2017

Premesse a kore


La Compagnia Tarantarte guidata da Maristella Martella con "Premesse a kore" ha inaugurato – lo scorso venerdì 13 ottobre - la quattordicesima edizione di "Open dance” rassegna dedicata alla nuova danza dai Cantieri Teatrali Koreja.
La tribuna è gremita, c'è molta attesa per questa prima nella prima. Si fa buio. Lento un sibilo, un rombo - come un "divenire tellurico" - prende la scena. La luce rischiara, sale piano, lentissima, c'è come un'alba, un'origine. Il quadrato del palco, con il suo vuoto, diventa simbolo ancestrale e metafora del Tempo e in quel "divenire tellurico" custodisce la chiave per leggere la danza di Tarantarte.
Dal buio alla luce (anzi le luci, bellissime nel disegno creato da Tea Primiterra con Mario Daniele) e poi la musica; e che musica: una delle Gnossienne di Eirk Satie volta a sirtaki da Daniel Malingo apre la danza, porta colori, poi la voce di Sam Karpienia, i suoni di Dakha Brakha, di Gabriele Panico, di Officina Zoè fino alla “ruota sufi” che tutto muove. Muove senza consumare allargando l’energia in una significazione titolata al noi: al pieno coinvolgimento, alla piena condivisione della vita e delle sue passioni.

Per meglio comprendere ho cercato un alleato: il mentore è Rudolf Laban (1879 –1958) danzatore e coreografo ungherese fondatore dei principi teorici della danza moderna europea.
Certe volte i libri* basta tenerli accanto per sentirne l'energia, altre volte fanno miracoli. Apro a caso e il caso mi porta a pagina 98, capitolo quinto, "Le radici del mimo". Leggo: "Le persone che passano accanto ai loro simili ignorandone le lotte, le sofferenze e le gioie, perdono un importante aspetto del senso della vita con quello che esso può dare. Perdono l'opportunità di esplorare ciò che si nasconde dietro la superficie dell'esistenza e tendono a ignorare il teatro, dove queste profondità vengono rilevate. Non afferrano il senso del valore di persone e situazioni e il mondo appare loro, in molti casi, un accumulo di avvenimenti senza senso. Non è per questa gente che l'attore-danzatore si esibisce e deve stare attento a non cadere nella stessa indifferenza. Una persona che non si interessa ai conflitti dei suoi simili non è un attore, non è un danzatore e a mala pena può dirsi un essere umano".
Illuminante per comprendere la tensione e la motivazione alla danza di Maristella Martella e delle sue danzatrici (Silvia De Ronzo, Manuela Rorro, Laura De Ronzo, Alessandra Ardito) il monito di Laban è pienamente colto e l’impegno coreografico espresso si traduce in "partecipazione", in efficacia catartica, in una coralità che dalla scena transita verso la platea coinvolgendo il pubblico.
Non c'è una narrazione: "Molto, il più forse, e l'essenziale, resta non detto, resta probabilmente a livello inconscio, e la trama (...) non è possibile abbracciarla con uno sguardo" si legge nel foglio di sala in una citazione di Christa Wolf; ci sono in "Premesse a kore" dei quadri musicali e dentro questi, l'agire, la purezza di un movimento pieno, cosciente del flusso della vita e del contributo creativo che alla vita si può offrire con il teatro. Ancora citando Laban: "L'uomo determina il suo destino più o meno consciamente, ma gli atti e le omissioni dei suoi simili interferiscono e modificano la particolare lotta creativa individuale. (...) Passioni conflittuali e affetti coinvolgenti, rigide parzialità ed esitazioni ansiose creano un'infinità di relazioni che non si possono sbrogliare o comprendere completamente attraverso la sola analisi intellettuale. L'arte teatrale ha il privilegio di aiutare lo spettatore a comprendere gli eventi della vita nella loro completezza e risvegliare dentro di se la capacità di associare questo labirinto di azioni alla sua ricerca inconscia di valori". Nella danza, il dono del corpo sfida la Storia e tesse le storie. Questo accade nella scena di Tarantarte, questo racconta l’alfabeto gestuale di questa singolarissima compagnia e mi chiedo: non è accaduto così con le "operanti" del Tarantismo? Non erano loro interpreti di una interrogazione che nel tentativo di risolvere l'inquietudine dell'una mostrava alla comunità il suo limite?

*Laban, Rudolf, L'arte del movimento, a cura di Eugenia Casini Ropa e Silvia Salvagno. Ephemeria, Macerata, 1999

domenica 27 agosto 2017

Notte della Taranta 2017. Vince la musica, tuttavia...


Si, ci sono cose che mi hanno convinto, bisogna essere sinceri! Tornare a riflettere, a riconsiderare il proprio pensiero è esercizio sano. Intatto rimane l'impianto della mia riflessione sulle involuzioni di un percorso - quello della Notte della Taranta e soprattutto della Fondazione che la guida - in gran parte incompiuto nelle sue prerogative relazionali e di consolidamento dello spirito di comunità. La musica vince sempre, quelli che l'hanno "fatta" sul palco di Melpignano son musicisti e interpreti capaci e generosi, "te core" come solo i musicisti sanno essere.
Bravo Raphael Gualazzi con la sua sobrietà urbinate, bravi gli strumentisti che ha scelto per dare corpo alla sua idea interpretativa della tradizione musicale salentina: ragtime, svisature e fughe solistiche, variazioni soul, afro cubane e "latine"... hanno funzionato nella contaminazione toccando in alcuni brani punte alta di capacità creativa... Bello il pianoforte, bella la tromba, belli i sassofoni e le congas... Un'edizione d'ascolto, sarà perché la seguo dalla mia poltrona, ma la mescla jazzistica serve, aiuta l'ascolto e l’abbandono.

Tuttavia...

"Nu me suonati cchiui ca su guarita, la grazia me l'ha fatta stamatina" canta Enza Pagliara e viene da pensare alla Puglia Felix di cui la Notte di Melpignano è emblema così almeno pare sentendo il Governatore di Bari… è guarita? 
No, non credo lo sia… non è più quella ostaggio della “Speranzosa Parola Vendoliana”, quella d’adesso è “punta” da un narcisismo ancora più virulento. Chissà se mai sarà capace di farsi consapevole, distratta, ubriaca, presa com’è da sé, ora che è la stella del turismo, specie qui nel nostro Salento, la malattia mostra tutta la sua gravità…

Ha ancora bisogno di suoni il Salento, di accudimento popolare (ma dove trovarlo sincero, partecipe, fattivo?), di attenzione e di pratiche capaci di decantare l'ubriacatura di questi anni... Di scrollarsi di dosso la megalomania dei suoi finti taumaturghi e di inventare una diversa economia nel fare e produrre cultura. Questo preme, nel Salento, in Puglia ma anche in Italia, in Europa, nel Mondo... Colmare il baratro dell'insensibilità, della deriva civica, dell'odio che avvelena la politica e la convivenza tra le persone... Non basta la parola "pace" ad uso e consumo del conduttore o della star di passaggio... Non basta... Non serve quel bellissimo palco con le luminarie, serve altro. Non serve l’ingombrante leziosità della danza (meglio non parlarne). Non servono i bellissimi abiti di "Silente". Ecco si, "silente"… Fare silenzio, pausa, imparare dalla musica, accordarsi, mettersi in ascolto e ripartire, tornare alla semplicità, alla relazione, veicolare profondamente il messaggio d'amore della Pizzica, la rabbia, la protesta, il rammarico, la canzonatura del “maschio” e del Potere. La materia c’è basta capire che una “ronda” non è quella che si consuma sul palco è altra cosa, altra sfida, altro costruire…