venerdì 18 settembre 2015

Giobbe, la poesia e le stelle. Per Hana-do Teatro




Un bozzetto di scena di Guglielmo Scozzi


di Mauro Marino

Il cielo è buio, stelle e stelle, la campagna, appena lasciata la strada statale 275 alla rotatoia per Tricase, ridiventa campagna dirigendosi verso Castiglione.
Il buio è buio, le stelle stelle e ancora salva pare sia la dimensione del piccolo villaggio dove è ancora concesso a due attori di ritirarsi a studiare; dove ancora le relazioni misurano il possibile e la palestra di una scuola comunale riempie le assenze destinandosi al teatro per volontà di un sindaco illuminato, come lo fu il postino di Holsterbo che diede casa all'Odin Teatret. Giorni e giorni di prove, tanti... per questo "Waiting for Job_resistere è amare" portato in scena da Antonio Palumbo e Manuela Mastria al debutto con Hana-do Teatro.
E allora, se il teatro è atto che si incarna nel fare dell'attore, l'opera prima a cui abbiamo assistito lo scorso sabato 12 settembre, accolti in uno spazio di "sacrificio" - un capannone in disuso della della Cooperativa Nuova Contadina di Andrano - è certamente teatro.
Finalmente una scena libera dalla narrazione. Una scena colma di poesia, dove il verso si declina con l'intero del corpo e l'agire teatro riconquista il suo indeterminato per farsi pura visione.

Un recinto scarno, in piano, essenziale, tagliato in un perimetro imbiancato come su una tavola da disegno (i bozzetti preparatori, realizzati da Guglielmo Scozzi, raccolti in un album, possono essere guardati seduti su una sedia allestita su una bascula alla fine dello spettacolo). Pochi i colori: bianco nero, grigio, avana, rosso, la lucentezza del metallo della "porta" che limita lo spazio sul fondo e la cenere che via via tutto ricoprirà...
Abbandonarsi per cinquanta minuti, per i "viziati" di oggi non è facile, ma il teatro chiede allo spettatore proprio questo: sospendere il giudizio e farsi desti. Darsi interamente al dono.
Ecco, schiara, appare... Fare la scena, dis-farla, menare colpi precisi, calci, pugni, spinte, lotte per sostanziare con i rumori e con i suoni (il tema musicale è di Gaetano Fidanza) ciò che lo sguardo coglie, come quello più piccolo del frantumarsi tra le dita dei gusci di arachidi, gesto che torna nel corso dello spettacolo, come un acquietamento, uno scandire il tempo delle attese, di attimi eterni, come eterno è il tempo che ci separa da Giobbe e dalla terra di Uz dove egli viveva. Giobbe è la prova con cui si confronta la drammaturgia di Palumbo: l'uomo integro e retto, simbolo di giustizia e di pazienza, temeva Dio ed era alieno dal male con rassegnazione sopportava molestie, ingiustizie e tribolazioni, personificazione del giusto che soffre mentre i malvagi prosperano, e che tutto sopporta inchinandosi al volere di Dio. Un uomo caparbio nel suo resistere. Come adesso noi... Come questo teatro che nonostante tutto, osa: "La lingua muore. S’inarca e grida fino a tacere. La sfida è dimenticare, cadere. Cadere e dimenticare. Dimenticare e cadere (...) Tutto tace. Non si vede anima viva. Nessuno a cui chiedere. Il mondo mangia il mondo. In silenzio. Il vento, fuori, muove qualche ricordo tra i rami. Un gelso, l’albero che salivamo per addolcire le labbra e toccare il cielo. Ma tutto tace. Anche il cielo, di là, che rincorri affamato...". Questa la condizione dei "sensibili" nel nostro tempo...  A quest'allerta il teatro ci chiama.

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