lunedì 15 settembre 2014

L'olio salva l'ulivo



di Mauro Marino


C’è stato un Salento senza ulivi? Certo, c’è stato. C’è stato il Salento dell’oleastro, quello raccontato da Ovidio, nelle Metamorfosi: le villanìe, gli insulti osceni proferiti da un pastore sconcertarono le Ninfe messape, loro danzarono e l’incantesimo trasformò l’incauto in albero, frutti amari i suoi, l’asprezza del linguaggio trapassata nelle bacche dell’oleastro. Una terra di grotte, di paludi e di canne; una terra coperta di boschi, di querce; una terra selvatica. Poi, vennero i Basiliani in fuga dall’Oriente, cacciati dalla furia iconoclasta e, piano piano, con la loro opera paziente il Salento mutò la sua natura, s’è addomesticò, si fece produttivo nel nome dell’olio e del vino.
Una vocazione agricola conquistata con grande fatica. Non è facile il Salento, non è stato facile, le pietre - alzate a fare altari e menhir, a fare rifugi e muretti per chilometri e chilometri - ce lo ricordano ogni volta che il nostro distratto sguardo trova “quiete” nel paesaggio. Un suolo pietroso, aspro, arso… conquistato a fatica. Forse ancora da conquistare nella sua tenuta, bisognoso com’è di continua cura, di “manutenzione”. Non è facile il Salento, non è stato facile e non lo è ancora. Pensiamo ai grandi latifondi tenuti incolti, alla fame dei più miseri, alle lotte per il riscatto della terra e del lavoro… Quanto, è accaduto!
Oggi immaginare un Salento senza ulivi è impossibile ma l’immenso patrimonio olivicolo è in pericolo. “Fastidiosa” si chiama la Xylella. Virulenta aggiungerei anche vista la velocità con cui il batterio si diffonde sul territorio: 23mila gli ettari di uliveti colpiti, milioni le piante prese dal “morbo” - molte sono piante centenarie, alcune millenarie - un patrimonio unico, irripetibile. L’allarme – come costantemente accade – è stato colto con grave ritardo dalla responsabilità politica. Sono trascorsi almeno tre anni dai primi allerta, ed è solo grazie alla volontà e al volontarismo di alcuni se si è compreso quanto stava accadendo a quegli alberi che, pian piano, han preso a mutar colore - il verde-argento delle foglie s’è fatto bruno - presi da una sindrome di disseccamento rapido.
Adesso è allarme rosso, tutti mobilitati ad immaginare linee di difesa, aree di quarantena… Si lavora e si spera non senza contraddizioni perché, con leggerezza, si sceglie anche di espiantare centinaia e centinai di alberi per far largo al cemento, per aprir strade, per dar spazio al turismo, al business, alla rapina. Bha! C’è da rimanere basiti riflettendo su queste “scioccherie” come se l’ulivo non fosse sempre l’ulivo e ‘hai voglia’ a pensare di ripiantare… Andate a contemplare la pena dei trapianti, il dolore che suscitano in chi guarda le assurde amputazioni: gridano quegli alberi. Gridano! Si vendicano quegli alberi. Si vendica la natura…
Giorni fa qualcuno ha intravisto la possibilità di un “miracolo” nel tentare di porre rimedio al “guaio”: le acque di vegetazione - le acque reflue derivanti dalla lavorazione dell'olio di oliva, ricche di fenoli e polifenoli con spiccate proprietà antimicrobiche e battericide - sembra possano far da barriera al diffondersi del male. Se così fosse sarebbe poesia: “l’olio salva l’ulivo”. Una bella parabola, un monito per chi spera di poter speculare su questa ferita. Il problema non riguarda solo gli olivicoltori (risorsa di un’economia, la nostra, in cerca della sua particolarità) ma tutti noi. Tutti noi siamo - dobbiamo imparare a considerarci - custodi temporanei degli alberi nella consegna che il tempo ci ha dato e in quella che il tempo ci chiede per poter sperare un futuro Salento ancora abitato dagli ulivi.


Su La Gazzetta del Mezzogiorno di domenica 14 settembre 2014

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