sabato 7 dicembre 2013

Il coraggio dell'attore, César Brie


César Brie in una scena di Albero senza ombra

Abbiamo visto, giovedì 5 dicembre, ai Cantieri Teatrali Koreja, in apertura del cartellone  di Strade Maestre, "Albero senza ombra" spettacolo scritto, diretto e interpretato da César Brie.
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Al pubblico manca la solitudine nell’essere pubblico. L'uno, non sa essere uno e, in compagnia di tanti uno, mormora, cerca l'altro, ride, chatta, guarda il suo i.phone, dialoga via sms.  Inquieto, non sa stare al cospetto di un'opera. Ha dimenticato come si fa, come essere partecipe di un rito. Solo il buio placherà l'irrequietezza. Sarebbe bello, educato, se giungesse prima, quel silenzio, una volta varcata la soglia, entrando in sala. Sarebbe un segno di maturità, salutare - scordando la premura del quotidiano - quell'attore che aspetta, seduto in fondo, di dare inizio al suo atto. Ma è vano sperare, il cinquettare di un twitt giunge a spettacolo iniziato, nonostante le raccomandazioni...
La memoria teatrale è "memoria parallela" per chi è al cospetto del palcoscenico. L'essere pubblico è (deve essere) condizione essenziale, come quella dell'attore: accogliere, accudire, riporre le storie dentro sè. Lasciarle decantare per poi chiamarle, destarle, come per un sogno portarle in luce. Corrono parallele – le cose del teatro - non appartengono più all'ordinario quotidiano, divengono  materia della "terra di mezzo". Sono visione, apparizione, cosa santa. Ammaestramento per le cose della vita.
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L'amplificazione "frigge" in attesa, sottile, costruisce un tappeto sonoro che conta il venire dei passi, li sento, alla mie spalle. Passi che macinano il cammino, percepisci la giungla, l'umido sotto le scarpe...
Si fa buio, per il racconto di una tragedia....
C'è un perimetro di foglie, un sentiero, tutto intorno ad una pesante tela grigia che copre il pavimento del "quadrato" di scena. Tutt'intorno siede anche una porzione di pubblico. Dall'alto, cadono povere cose: coppe di zucca che portano una, farina di mais, altre, castagne boliviane. Poi speculari, due abiti, uno femminile e uno maschile, di quelli del decoro andino, con le tessiture che sul nero, sul rosso intenso, mischiano i colori, nell'ordine dato da mani profondamente sapienti.
César Brie è seduto, scalzo.
Corpo antico, il suo, presente, sempre desto. Capace. Testimone di una "tradizione" teatrale che possiamo ormai considerare "classica". Quella che, con povere cose, con l'essenziale, sa costruire incantamenti, sa intrecciare storie, sa fare eroico l'attore sul filo, in equilibrio, tra responsabilità artistica e impegno civile.
Parlano i morti, in questo spettacolo, e parla César. Due diversi piani narrativi muovono l'intreccio drammaturgico.
La sedia, accoglie il racconto "personale" dell'attore, l'avventura del ritorno nel Continente Sud Americano con il Teatro de Los Andes fondato nel 1991 in Bolivia, a Yotala, vicino alla città di Sucre. Poi, la reazione all'orrore, che trasforma Brie da stimato artista nell'"argentino di merda" che osa sfidare il potere.
Il "non essere codardo" e l'imperativo del dovere di denunciare da sempre abitano nel corpo di Cèsar Brie: la sua ostinazione artistica si fonda su un agire creativo profondamente politico che, nel teatro, ha trovato riscatto alla mortificazione della libertà e della giustizia.
Il "quadrato" di scena - con la sua esile macchineria e un magistrale disegno di luci - è invece il luogo della Storia e delle piccole storie: «L’11 Settembre 2008 nel Pando, regione della giungla boliviana, si è consumato un massacro di contadini. A fine giornata i morti accertati erano 11, centinaia i feriti da armi da fuoco e decine le persone scomparse (tra cui diverse donne e bambini), alle quali nessuno, finora, ha restituito un nome, un volto, una storia», racconta César Brie nel foglio di sala.
"I morti quando parlano fanno qualcosa che non è propio rumore", è una delle prime battute dello spettacolo e siccome "gli occhi non devono niente a cosa non hanno guardato" l'attore si fa medium e dà voce all'Ade. Va e viene dai corpi degli altri, quelli che in comune hanno avuto la stessa crudele fine. Campesinos, ma anche i carnefici, parlano. Uno scavo in cerca della verità.
Prima sollecitata con un documentario "Tahuamanu", quello che via via gli lo ha reso "invalido e zoppicante" nel cuore, mettendo in discussione la sua permanenza in Bolivia, poi la scelta della scena, il suo luogo, per continuare la denuncia e rendere grazia a quelle anime  che ancora aspettano giustizia. “Che volete?" chiede in chiusura, e "il sogno infranto di un testardo", il suo, d'attore, sembra trovare orizzonte nello sbigottimento che coglie il pubblico, zittito dal graffio del suo coraggio.

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