martedì 24 dicembre 2013

La poesia di Alessandra Peluso

Il Tempo è noi! Ci "conta", ma non solo quello: è carne, è respiro, è l'inquieto della mente. Il Tempo custodisce ogni implorare, ogni vagare, ogni riuscire. È festa ed è pianto. Le stagioni dettano i giorni, il tornare dei colori, sussurrano alla pelle il verso. E quello viene, si fa canto, sottile muove alle mani, nell'eventualità di inchiostrature che, rigo dopo rigo, fanno il poeta: il suo stare attento, il suo essere al Mondo, compagno del Tempo. Un amante sempre illuso di possederci, con i suoi calendari, sceglie nomi e mette i mattoni dell'incontro. Fa dimora e accoglie l'abitare del sentimento. Della mancanza.
   La materia della poesia di Alessandra Peluso è in questo cercare di pelle, una sfida al Tempo fatta di soffi, questo sembrano i componimenti della silloge licenziata, nell'agosto 2013, dalle edizioni Lieto Colle di Michelangelo Camelliti.
   Versi densi, traversati da un lieve e levitante erotismo, quello del desiderio di ognuno, lei lo "parla", dentro una frontalità mai "oscena" se mai osceno può essere il desiderio, l'attesa, la speranza dell'altro. Dell'altro in amore.
   Le mani le senti e senti le labbra, senti il venire del sonno e nella veglia l'incombere di Orfeo suggeritore di sfide, di abbandoni, di cadute. Senti la carezza che non viene, sperata dall'umido che invade. Senti la vita: "Vivo in un idillio/ vivo la bellezza di una forma/ desiderata da me e per me/ vivo e mi vivo in un sogno/ vivo la mia vita// i miei perchè".
   Già i perchè...: "Innamorarsi è essere/ in sintonia in dissonanza/ contraddirisi/ raccontarsi bugie/ nascondersi mostrarsi/ accarezzarsi sfiorarsi/ penetrarsi in commistione/ con ogni piccola particella/ di liquido e solido/ tutt'uno/ per non essere sazi mai".
   Un'avventura leggere, leggerla, la scopri pagina dopo pagina e ti ubriaca, ti porta a... "Capire per scoprire ad un tratto/ di non aver capito nulla o giù di lì"... questo è il gioco di "Ritorno Sorgente" questo è il sempre sorgere di chi inquieto trova, sa trovare, l'incantamento, il suono, il dettato che fiorisce in poesia...

lunedì 16 dicembre 2013

La Danza nella Casa di Borgo San Nicola

Libera la pena

Lunedì 9 dicembre ho visto la danza. L’orario dell’appuntamento era insolito: “le 15 e 15. Categorico presentarsi a quell’ora” mi dice Chiara Dollorenzo, la coreografa. Anche il teatro è insolito: la Casa Circondariale di Borgo San Nicola.
Ecco spiegato l’imperativo.
Sai com’è “la procedura per l’entrata ha i suoi tempi”. Arriviamo puntuali, un piccolo gruppo è già in attesa. Consegnati i documenti alla porta e abbandonati i cellulari negli armadietti, sbrigato il da fare, varchiamo la soglia in pulmino.
Il grande portone-diaframma tra il dentro e il fuori si apre e siamo “dentro”. Sarà la luce invernale, ma tutto mi appare più piccolo rispetto alle altre volte che mi son trovato lì.
Vivido, il verde dell’erba isola il chiaro dei muri, delle grade e dei vari padiglioni, due grandi sculture, salutano. Sembra di galeggiare, di stare in apnea. Ospite provvisorio di un luogo dove la provvisorietà è norma: stare nella pena è condizione sempre tesa nella speranza dell’andar via. “Evadere” quanto più è possibile... Il teatro, la danza, la musica, l’arte, il creare... la chiave di piccole fughe attraverso cui costruire un altro tempo, per dare materia e concretezza all’inquietudine.
***
Una breve attesa nel “foyer” della sala spettacolo. Le ultime prove di là dalla porta, “il gruppo ha lavorato per quattro settimane, due incontri settimanali di due ore ciascuno”, m’informano. Entriamo, prendiamo posto, alle nostre spalle il pubblico si infoltisce: accompagnati dalle Guardie Penitenziarie arrivano i “residenti”.
Si fa silenzio
Il sipario rosso si apre, lo accompagnano in due, lentamente scoprono uno, in piedi, al centro, maglietta bianca e pantaloni neri, fa una camminata all’indietro. In bianco e nero sono tutti gli altri che iniziano ad arrivare incrociandosi sul palcoscenico. Vengono, tracciando diagonali, si incontrano, si salutano, fanno piccole prese, vanno in sospensione, tenuti l’uno all’altro. Tentano passetti, proprio passetti, quelli della danza...
La compagnia è composta da 13 uomini, con i corpi propri degli uomini: i muscoli, le pance e tutte le pesantezze dell’età e dello stare nella reclusione. Una grazia inaspettata è quella di cui siamo spettatori, provano il largo di un valzer, ballano insieme, scopriremo dopo che parlano lingue diverse: italiani, rumeni, albanesi disegnano sulle nostre facce la sorpresa.
Uno, come il titano Atlante - quello che Zeus costrinse a tenere sulle spalle l'intera volta celeste - è in posa, al centro: postura del pensamento e della sopportazione del Mondo, intorno prese, salti, attese e molta emozione a fare da fluido dalla scena alla platea.
In tutto, per circa 20 minuti di esibizione, tre variazioni tessute su tre diverse sonorizzazioni: dalla melodia verso la ritmicità tipica del minimalismo.
Cos’è il corpo che danza? É un corpo che sceglie di consegnare l’energia all’altro.
Qui - in questo esperimento donato al Carcere dall’Amministrazione Comunale di Nardò - è una comunità che danza. Un insieme che mette fuori la conoscenza di un Sè corale nell’occasione della riconsegna del sè d’ognuno alla collettività. Non c’è la pena, la colpa a far da medium, c’è la pietas, l’accoglimento, un provarsi dove il cuore e la volontà muovono il corpo nell’aiuto vicendevole, nello scambio perchè “l’abbraccio è aiuto e non si balla solo con i piedi ma anche con la testa” e con il desiderio...

sabato 7 dicembre 2013

Il coraggio dell'attore, César Brie


César Brie in una scena di Albero senza ombra

Abbiamo visto, giovedì 5 dicembre, ai Cantieri Teatrali Koreja, in apertura del cartellone  di Strade Maestre, "Albero senza ombra" spettacolo scritto, diretto e interpretato da César Brie.
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Al pubblico manca la solitudine nell’essere pubblico. L'uno, non sa essere uno e, in compagnia di tanti uno, mormora, cerca l'altro, ride, chatta, guarda il suo i.phone, dialoga via sms.  Inquieto, non sa stare al cospetto di un'opera. Ha dimenticato come si fa, come essere partecipe di un rito. Solo il buio placherà l'irrequietezza. Sarebbe bello, educato, se giungesse prima, quel silenzio, una volta varcata la soglia, entrando in sala. Sarebbe un segno di maturità, salutare - scordando la premura del quotidiano - quell'attore che aspetta, seduto in fondo, di dare inizio al suo atto. Ma è vano sperare, il cinquettare di un twitt giunge a spettacolo iniziato, nonostante le raccomandazioni...
La memoria teatrale è "memoria parallela" per chi è al cospetto del palcoscenico. L'essere pubblico è (deve essere) condizione essenziale, come quella dell'attore: accogliere, accudire, riporre le storie dentro sè. Lasciarle decantare per poi chiamarle, destarle, come per un sogno portarle in luce. Corrono parallele – le cose del teatro - non appartengono più all'ordinario quotidiano, divengono  materia della "terra di mezzo". Sono visione, apparizione, cosa santa. Ammaestramento per le cose della vita.
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L'amplificazione "frigge" in attesa, sottile, costruisce un tappeto sonoro che conta il venire dei passi, li sento, alla mie spalle. Passi che macinano il cammino, percepisci la giungla, l'umido sotto le scarpe...
Si fa buio, per il racconto di una tragedia....
C'è un perimetro di foglie, un sentiero, tutto intorno ad una pesante tela grigia che copre il pavimento del "quadrato" di scena. Tutt'intorno siede anche una porzione di pubblico. Dall'alto, cadono povere cose: coppe di zucca che portano una, farina di mais, altre, castagne boliviane. Poi speculari, due abiti, uno femminile e uno maschile, di quelli del decoro andino, con le tessiture che sul nero, sul rosso intenso, mischiano i colori, nell'ordine dato da mani profondamente sapienti.
César Brie è seduto, scalzo.
Corpo antico, il suo, presente, sempre desto. Capace. Testimone di una "tradizione" teatrale che possiamo ormai considerare "classica". Quella che, con povere cose, con l'essenziale, sa costruire incantamenti, sa intrecciare storie, sa fare eroico l'attore sul filo, in equilibrio, tra responsabilità artistica e impegno civile.
Parlano i morti, in questo spettacolo, e parla César. Due diversi piani narrativi muovono l'intreccio drammaturgico.
La sedia, accoglie il racconto "personale" dell'attore, l'avventura del ritorno nel Continente Sud Americano con il Teatro de Los Andes fondato nel 1991 in Bolivia, a Yotala, vicino alla città di Sucre. Poi, la reazione all'orrore, che trasforma Brie da stimato artista nell'"argentino di merda" che osa sfidare il potere.
Il "non essere codardo" e l'imperativo del dovere di denunciare da sempre abitano nel corpo di Cèsar Brie: la sua ostinazione artistica si fonda su un agire creativo profondamente politico che, nel teatro, ha trovato riscatto alla mortificazione della libertà e della giustizia.
Il "quadrato" di scena - con la sua esile macchineria e un magistrale disegno di luci - è invece il luogo della Storia e delle piccole storie: «L’11 Settembre 2008 nel Pando, regione della giungla boliviana, si è consumato un massacro di contadini. A fine giornata i morti accertati erano 11, centinaia i feriti da armi da fuoco e decine le persone scomparse (tra cui diverse donne e bambini), alle quali nessuno, finora, ha restituito un nome, un volto, una storia», racconta César Brie nel foglio di sala.
"I morti quando parlano fanno qualcosa che non è propio rumore", è una delle prime battute dello spettacolo e siccome "gli occhi non devono niente a cosa non hanno guardato" l'attore si fa medium e dà voce all'Ade. Va e viene dai corpi degli altri, quelli che in comune hanno avuto la stessa crudele fine. Campesinos, ma anche i carnefici, parlano. Uno scavo in cerca della verità.
Prima sollecitata con un documentario "Tahuamanu", quello che via via gli lo ha reso "invalido e zoppicante" nel cuore, mettendo in discussione la sua permanenza in Bolivia, poi la scelta della scena, il suo luogo, per continuare la denuncia e rendere grazia a quelle anime  che ancora aspettano giustizia. “Che volete?" chiede in chiusura, e "il sogno infranto di un testardo", il suo, d'attore, sembra trovare orizzonte nello sbigottimento che coglie il pubblico, zittito dal graffio del suo coraggio.

martedì 26 novembre 2013

Un po' di moda non guasta!


Biondo-maschietto in una fotografia di Roberto Pagliara

Sabato 23 e domenica 24 novembre si è tenuta l'undicesima edizione del Lecce Fashion Weekend; l'evento torna due volte l'anno a cura di Elisabetta Bedori di Alta Voce, agency e fashion magazine. A condurre la serata la giornalista Cinzia Malvini, suo il programma cult M.O.D.A. su La7.
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È la mia terza volta da spettatore e, ogni volta, è stato come un viaggio nelle cose del far moda in Puglia e nel nostro Salento. Un far moda alla ricerca di mercato e di futuro. In scena, virtuose atelier più o meno piccole, più o meno affermate ma tutte motivate da una grande passione e dedizione al mestiere.
Ciò che manca al "sistema moda" pugliese è il potenziamento dell'indotto: uno scouting più motivato ed efficace nel definire orizzonti, un potenziamento degli ambiti formativi e un più fattivo coinvolgimento delle scuole di moda e di costume, la creazione di agenzie capaci di finalizzare e promuovere il fare creativo. Una maggiore chiarezza politica, soprattutto, nel dare destino a ciò che, a parole, viene magnificato sempre e solo – quando serve - con frasi di circostanza. C'è insomma tanto da fare, l'appuntamento leccese con la sua puntualità tiene desta l'attenzione...
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Un viaggio, un partire dicevo: quest'anno il LFW è stato ospitato in qualla che un tempo era, presso la Stazione di Lecce, l'Officina della Squadra Rialzo, oggi luogo del Museo Ferroviario di Puglia.
Scegliere i luoghi sembra essere una prerogativa del fashion weekend leccese, le ambientazioni costruiscono il necessario sottotesto, utile alla lettura delle collezioni, traccia di un filo che, accogliendo il pubblico lo accompagna sollecitandolo alla piena presenza.
In passato m'ero accorto della galleria trasparente all'ombra della colonna di Sant'Oronzo o anche, avevo notato, la ricostruzione, sempre in quella Piazza, di una stazione ferroviaria. Ma chi usa leggere le mie cose sa che il “Salotto” lo lascerei libero dagli eventi essendo esso, già in se stesso, un evento, ma questo è divagare. Intrigante è stata, nell’ottobre del 2012, la scelta di un magazino di elettrodomestici – quello dello show room di Lato - nella zona industriale di Corigliano d'Otranto o anche la scelta di via Rubichi a Lecce nel 2013, ai piedi del Municipio, per ospitare la passerella come a sottolineare la necessità di uno stretto rapporto tra chi "cuce" eventi e chi dovrebbe garantire l'agibilità logistica ed economica...
Ma, anche questo, è divagare.
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Tra gli spettacoli, quello della moda è "teoricamente" il più semplice. Basta disegnare la passerella e tutto in lungo si sistema il pubblico. Un set di luci, qualche piccola macchineria teatrale ed è fatta.
Una camminata è quello a cui sono allenate le "attrici" dell'atto, le modelle che sguardo dritto, mirato in avanti, tagliano l'aria.
Le prime che appaiono, nel prologo della serata, – la mia cronachetta riguarda la sfilata di domenica 24 – sono "sonnambule". Sguardi trasognati e capelli voluminosi - la spazzola per il "crespo" è dell'hair stylist Roberta Apos - in bianco, con pigiami e baby doll, fanno traffico di valige. Su e giù lungo l'antico vagone che fa da sfondo alla passerella, le trasportano da un vecchio carrello portabagagli fino in fondo, per scomparire inghiottite dal convoglio.
Il fischio di partenza da inizio alla serata. Ancora una performance, quattro maschi in vestaglietta fanno cornice, una Mina spagnola canta "Un anno d'amore", alti tacchi a spillo reggono un'abito rosso. Michele Gaudiomonte lo racconta: è in organza con nappine di seta applicate una ad una sulla superfice e le mani artigiane le vedi all'opera, nella cura attenta del particolare, nel far finitura alla bellezza, come fa Almodovar – a lui è dedicato il quadro - quando "cuce" i suoi film.
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Annarosa Cardignan apre la sequenza dei defilè. Disegno minimalista, dal nero si passa al grigio. L'andatura delle modelle è tutta tenuta negli sbiechi dei tagli, nei colli larghi che sfiorano le spalle, nelle cadute aperte del panno, e poi i colori: prugna, rosa antico e un caldo verde. Signorine eleganti, ma molto eleganti, la più elegante è biondo-maschietto...
È un mistero la trance della modella, passo avanti e spalle indietro, ma proprio indietro, paiono cadere alcune, danno la vertigine... Non t'accorgi dove guardano. Impossibile saperlo il perdimento loro, il segreto del pensiero è tutto tenuto in impeccabili cappottini.

Poi Gino Longo, da Cursi. Imbastisce tradizione e futuro. Un capospalla grigio con risvolto viola, un cappottone leopardato, una sciarpa-vestito in total nero, biondo-maschietto porta un abito azzurro argento. Segue il rosso, plissetato e fasciato. E poi, abiti lunghi, il più attraente trasla lucentezze di grigio su un largo cappuccio, sospeso, tenuto in gola da un fiocco... Ecco le spose: grigio-argento, bianco avorio, bianco bianco... Il make-up è di Fabiana Sacquegna, labbra rosse e occhi luminosi mischiano una misteriosa felicità al rimmel.
Viene adesso il puro creativo: cinque abiti della Scuola di Moda Rosanna Calcagnile. "Surreali" dice qualcuno, incantato, alle mie spalle. Grandi gioielli di ceramica sghembano su tagli che ricordano le improvvisazioni del jazz: stanno su moltiplicando la linea ritmica. Assoli di materiali si combinano nell'azzardo di colori: il giallo, il verde, il rosso nella prova dell'armonia, mai scontata se è lo sguardo ad essere sollecitato, provocato, svegliato dalla consuetudine. La ricerca è concetto e valore, ecco allora una cappa in vichy, un grande colletto, tessuti da tappezzeria cuciti al rovescio, cimose e cuciture a vista, orli sfilacciati, volumi applicati e larghi plissè: vestono e tagliano arte sulle figure in movimento. Il giusto prologo a ciò che segue: Dolores Mauro ispira ad "Alice" i suoi capi cuciti con la sapienza di una sartorialità impeccabile nel combinare l’astrazione decorativa del voile con la geometria del tartan, il particolare disegno dei tessuti in lana delle Highland scozzesi. Il sogno irrompe portato dal rosso. Un grande cuore tridimensionale taglia il bianco e nero della scollatura. Sfilano variazioni di temi decorativi, l'abito lungo porta l'oro e la manica in giù a metà braccio.
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Di fianco ho mariti che fremono, seduti in tribuna, desiderosi di pizza fanno fretta alle mogli messe in giù, più comode sulla prima linea di sedie. Spero loro non cedano alla lusinga. Non cedono e si distraggono guardando un filmato sull'i.phone.
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In passerella è annunciata Maria Ancona presenza costante del fashion weekend, una collezione  total-black, i diversi toni e le lucentezze sono affidate alle variazioni dei materiali. Uno splendido capospalla, fa semplice la seduzione. Una giacchina su una camicia di pizzo. Lucido e opaco: un vestito disegna "spiando" trasparenze. E un cappotino poi... un bellissimo abito da sera con guanti e collo di pelo...
È incolpevole la mannequin. Colpevole è l'abito. Biondo-maschietto sembra l'unica a saperlo, nel lungo della gamba mostrata racconta la possibile complicità, il legame, con l'abito portato. Potrebbe essere sua cosa, sua scelta.
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I mariti cedono, prendono la via di fuga e, seguiti dalle mogli, spariscono alla volta della desiderata Napoli "con capperi e acciughe abbondanti...".
Malvini annuncia il debutto: Francesco Cecchini si ispira al radical-chic degli anni Settanta e, quella innocua trasgressione, la declina con boule per l'acqua calda portate come borse e povere coperte, quelle pesanti da caserma o da ospedale, si trasformano in mantelline, in giacchine, in comodi copri abito. Biondo-maschietto viene avanti con leggero mantello, ovali bislunghi segnano in ocra variazioni di grigio. "Il vero chic è uscire dagli schemi riguardando nel proprio armadio, re-interpretandolo nel bisogno del quotidiano" ammonisce il creatore nel suo commento alla collezione appena mostrata. Il giusto annuncio a ciò che verrà dopo. Il caldo del "pesante panno" si trasforma adesso in morbido cachemire quello che a Le Costantine si tesse sugli antichi telai della Fondazione di Casamassella. Un canto di donne annuncia il gruppo delle modelle: vengono insieme, si fermano, ognuna con movimento in tondo dà volume all'abito. Toni caldi, righe orizzontali mischiano rombi e spinature. Sapienza di donne talentuose che sanno  far moda inventando ogni giorno il dettato del tempo, le sue volubilità e i suoi desiderata.
Il ritorno repentino al presente più trasgressivo segna la chiusura della serata, in passerella i  leggings stampati di Cristèl e Romina jr. Carrisi. Audio cassette, bobbine di vecchi VHS, un Carpe diem scritto su una magliettina, la S di Superman, il fuoco poi, proprio il fuoco fanno da motivo decorativo. Biondo-maschietto mostra le grazie e un pop psichedelico fa festa e saluta il pubblico.
Alla prossima, al prossimo viaggio, la location è segreta, speriamo ci stupisca!
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In chiusura, permettetemi di divagare...
Ciò che ci saremmo evitato è l'insopportabile passerella dei politici, il loro pavoneggiarsi è l'opposto del guardar dritto. Loro, attenti, di sottecchi, amano controllare la devozione degli astanti, la misurano, vanitosi, quando siedono al "meglio posto"... Ci son poi quelli che presi da impeto tabagista lasciano la sedia e ostentando il pacchetto alla platea, senza farlo chiedono venia e s'allontanano traversando, spalle chine, la sacra linea...

giovedì 21 novembre 2013

Rina Durante, la raccontatrice

Edoardo Sanguineti con Rina Durante a Roca
É stata come una festa! Alcuni, annunciati, non c'erano. Accade sempre così, specie qui, dove siamo abituati a far le bizze quando siamo invitati e, i distinguo, fanno ombra alla levatura e all'autonomia espressiva dei Nostri: i poeti, gli scrittori, gli intellettuali che hanno dato vita e parole al divenire culturale di questa strana terra che trovano, nell'indifferenza e nella supponenza degli altri, la loro vera fine.
Ma torniamo alla festa, al convegno che lunedì 18 e martedì 19 novembre la Città di Melendugno, l'Università del Salento e il Cuis - con tre ricche sessioni di lavoro ed un recital di chiusura tenutosi al Cinema Elio di Calimera - hanno voluto dedicare a Rina Durante. "Il mestiere del narrare" il titolo, sul manifesto l'immagine di Maria Bellonci (l’ideatrice del Premio Strega) che bacia una giovanissima Durante in occasione della consegna, alla scrittrice, del Premio Salento nel 1965. Altri tempi e soprattutto altri eventi e altri premi.
Lei, la Rina, si definiva una raccontatrice. Persona capace di sguardo, di accoglimento. Antropologa per “necessità”, cercatrice di storie per meglio restituire l'immagine di una terra desiderosa di riscatto. Figura creativa, larga nel suo operare, capace di profondità e di leggerezza. L'ironia, lo strumento con cui viveva e mediava il suo rapporto con il Mondo e con gli altri: il disincanto, per meglio scavare - spogliare - la Vita e raccontarla, per fare che la piccola storia diventasse Storia. La Cultura come scelta di campo, una scelta politica per dare lingua e soggettività critica alle persone, ai miseri, agli affamati del "salentino, una delle terre più lontane d'Italia: non tanto per distanza dai centri d'irradiazione storica, quanto per una sorta d'indipendenza della sua gente, del modo di essere e di pensare" così è scritto nell’aletta di copertinanell’edizione del 1964 de “La Malapianta” uscita da Rizzoli.
La letteratura, la musica, il teatro, il cinema, per allenare gli occhi e dare luogo alla commozione che dallo sguardo sorgeva a far guida. Provate ad immaginarlo il nostro Salento negli anni Cinquanta. Leggetelo, andatelo a cercare, provate a sentire Teta, sua moglie, i loro tanti figli ne "La Malapianta". Provate a chiedervi i perchè della Tragedia di Roca atto corale di una comunità che nel teatro trovava l’opportunita di riconoscersi, del farsi prete del Tramontana...
*  *  *
La letteratura (l’arte) ha un tempo? Una scadenza? Deve essere (per essere) trendy? Sì, se ci attenimo ad una superficiale analisi storica, legata ai flussi del consumo e al gusto mainstream e non alla particolarità della vicenda di un artista, del territorio in cui vive, delle urgenze e delle difficoltà che lo muovono. Di questo bisogna tener conto, come anche, dello sguardo trasversale che dalla Provincia mira alle cose della Cultura e del tempo lungo dei testi, della scrittura che rimane, sopravvive alle contingenze e muove sconfiggendo il tempo.
L'opera di Rina resiste, esiste e va riletta, divulgata per meglio comprendere e porre argine alla deriva che coglie questo Salento dimentico di se stesso, tradito, oltraggiato, (forse) irrimediabilmente consumato.
Molti i testi analizzati nel corso della due giorni tra il Nuovo Cinema Paradiso di Melendugno e la sala conferenze del Rettorato: "La Malapianta", che presto troverà nuova edizione, "Tutto il teatro a Malandrino" ancora nel catalogo di Bulzoni, gli "Amorosi sensi" che speriamo Manni possa ripubblicare, i testi poetici degli esordi letterari con il Critone di Vittorio Pagano, i racconti sparsi e la ricca produzione giornalistica. Segni di una vera e propria militanza iniziata alla fine degli anni Cinquanta ma già incubata nelle visioni infantili sull'Isola di Saseno che abbiamo visto nel film-documento realizzato quest’anno da Caterina Gerardi.
Abbiamo scoperto – nella puntuale analisi testuale offerta da Lucio A. Giannone de "La Malapianta", una Durante "esistenzialista" nel descrivere il mal d'animo dei poveri, che nella loro autocoscienza monologante danno voce alle inquietudini di quelle classi subalterne che il Tempo Moderno ha spazzato via con le grandi migrazioni e con l'assoggettamento alla telvisione.
Di queste trasformazioni Rina Durante ha scritto, la violenza di queste trasformazioni ha denunciato, senza mai proporre la fuga ma al contrario proponendo e rinnovando lo scavo del suo sguardo.
Per questa festa dobbiamo dire grazie – prima che ad altri - alla testardagine dello scomparso Vittorio Potì, e poi ad Annalisa Montinaro, a Massimo Melillo, a Luigi Santoro, ad Antonio Lucio Giannone e al suo gruppo di lavoro.
Adesso con il ritorno in libreria de "La Malapianta" per i tipi di Zane Editrice aspettiamo gli atti del convegno, importanti per poter divulgare la ricchezza delle analisi proposte.
Speriamo accada presto.

lunedì 30 settembre 2013

Lecce e i suoi mercati

La nuova area per il mercato bisettimanale mai usata in una fotografia di Massimiliano Spedicato
Premessa: Piazza Libertini ancora una volta è per metà bloccata, la parte centrale del grande spiazzo del Palazzo delle Poste è recintato, l'ennesimo montaggio di un palco, poi le transenne si faranno "muri" a proteggere dai "portoghesi" le star di turno (nello scorso week end è stata la Nutella con scivolo gigante e musica sparata a tutta che c'era un frastornamento che non vi dico...).
Ieri l'altro, l'architetto Valeria Crasto, su Facebook, pubblicando la foto del Mercato di Porta Palazzo a Torino, un bell'edificio contornato nello spazio antistante da tantissimi banchi colorati, si chiedeva perchè a Lecce, Settelacquare, non potesse diventare un'area mercatale altrettanto bella e frequentata da tutta la città...
Molti, in questi anni, sono stati i tentativi (alcuni riusciti come il trasferimento del mercato coperto "fuori le mura") di "privare" la città della sua anima popolare: quello è un mercato con gli odori, i colori, gli inviti dei venditori, il mischiarsi delle persone con le persone...
La "città aiuola" immaginata da Adriana Poli Bortone è, in parte, un progetto riuscito e rimane poco, in centro, della Lecce di un tempo ormai remoto, vivo soltanto nella memoria di qualche anziano.  L'ultima enclave è quella degli ambulanti in Piazza delle Poste ma per quanto potrà resistere?
In questi anni si sono investiti denari, e molti, per tentare di mettere ordine: per il mercato bisettimanale - quello che ormai storicamente si tiene su Viale dello Stadio - si è costruita, dal nulla, in fondo a Viale Roma, un'enorme area, risultata alla verifica inadeguata. Si è "inventato" su Viale Aldo Moro, il Mercato Multietnico un spazio giardino bello e funzionale se solo, oltre all'inaugurazione si fosse lavorato a riempirlo di contenuti (soprattutto) più che di merci (assenti anche quelle). Di fianco all'azzurro mediterraneo di quella costruzione – che forse sarà destinata più "etnicamente" al Made in Salento - si è poi costruita, con vetri e acciaio, la nuova sede del mercato per gli ambulanti di Piazza delle Poste, diventerenno stanziali nei box assegnati, ma anche quella, non ancora usata, rischia di deperire e di essere mortificata dall'abbandono.
A pochi metri da lì, l’ormai vecchio capannone del mercato coperto, l’erede di quello storico che abitava sotto le mura del Castello di Carlo V°, coperto dalla tettoia liberty. C’è molto da fare, molto da immaginare.
Torno alla premessa e al riempire di contenuti ciò che si vorrebbe far divenire virtuosismo e virtù cittadina... L'area di Settelacquare, oltre alle aree da destinare a Mercato, gode anche di grandi spazi vuoti non sarebbe il caso di ospitare i "grandi eventi" lì? Palchi, concerti, mercatini del gusto, fiere e fierucole varie perchè non si immagina di poterle allestire in quel luogo, a Settelacquare, avviando una manovra di valorizzazione della prima periferia cittadina, un asse che si pensa fondamentale per il futuro sviluppo urbano... basterebbe un pò di fantasia e, forse, chi si ritrae dall'idea del trasferimento della sua attività commerciale in altro luogo fuori dal centro, inizierebbe ad apprezzare l'idea di farlo.
La città che si candida ad essere "Capitale Europea della Cultura" e "Patrimonio dell'Umanità" dovrebbe forse, anche pensare, a come proteggere la sua particolarità recuperando e dando lustro alla "dimenticata" anima popolare del far mercato.

sabato 21 settembre 2013

Lu picciu dell'Unesco

La città "Patrimonio"

Un nuovo "piccio" seduce Lecce: chiediamo all'Unesco di tutelarci... Un "piccio" proprio dopo quello - "raddrizzato" in corso d'opera - di divenire nel 2019 Capitale Europea della Cultura. Certo, son bei desideri ed è stupido osteggiarli, chi ha a cuore la città è chiamato ad accoglierli anzi di più, a lavorare perchè si realizzino, anche perchè si tratta di percorsi che, alla lunga, possono risultare virtuosi...
Il centro storico di Siena "straordinaria città medievale che ha conservato le proprie caratteristiche" è sotto l'ala dell'Unesco. Ci siete mai andati? Stupore: le parabole tv sui tetti sono rosso mattone, rese invisibili da un rigorosissimo piano del colore che tutela il decoro cittadino. Le regole municipali a tenuta della visione si traducono nell'assenza di condizionatori d'aria a vista, nell' accordo degli arredi urbani, delle insegne dei negozi etc... etc... etc... Un sistema, un progetto condiviso e rispettato che rende unico quel luogo: "Un capolavoro di inventiva in quanto gli edifici sono stati disegnati per essere adattati alla struttura urbana creando un tutt'uno con il circostante paesaggio culturale" si legge nel sito dedicato alla città toscana dall'Unesco. Una città, Siena, degna di essere nominata Patrimonio dell'Umanità perchè tutelata a monte dai suoi cittadini e dai suoi amministratori.
Certo, il nostro centro storico lo meriterebbe! Il barocco, il lavoro che lo ha creato, soprattutto, meriterebbero quel riconoscimento che, ahimè, tarda a venire proprio dai leccesi. Non a parole – per quello siamo campioni! Mancano le pratiche, manca quell'educazione civica capace di trasformare l'orgoglio di un'appartenenza in umiltà quando si tratta di abitare, di occupare con il proprio lavoro una porzione di città. Non accade a Lecce! Nel nostro centro storico regna sovrana e largamente tollerata una sorta di allegra anarchia e come se non bastasse si tarda ad adottare provvedimenti che accordino al Barocco il "decoro" urbano. Non è un'utopia, basterebbero delle regole, basterebbe per esempio non svendere un giorno sì e un giorno no Piazza Sant'Oronzo al "miglior offerente"; basterebbe capire quale destino prospettare per la città nel suo complesso tendando di pacificare le spinte schizofreniche che - un giorno sì e un giorno no - l'attraversano.
Martedì 17 settembre a Lecce, la vice presidente della Regione Puglia, Angela Barbanente ha presentato il Piano paesagistico territoriale: un "tessuto" di regole e di prospettive per garantire ai territori di svilupparsi in accordo con le loro più intime vocazioni al riparo dalle pretese speculative di chi ragiona non pensando ad un futuro di bellezza e di sostenibilità. Regole risultate indigeste ai più. Il nostro Sindaco s'è fatto paladino di quei Sindaci che non vogliono sentirsi secondi a nessuno. Che strana pretesa come se il loro mandato non fosse a termine e come se il loro mandato non contemplasse la protezione e la tutela del territorio che governano...
In Puglia patrimonio dell'Unesco dal 1996 sono i Trulli di Alberobello, anche quelli accolti in un centro storico armonico, bello a priori perchè frutto dell'antica lezione del decoro contadino. Forse  per consolarci potremmo far riferimento al centro storico di Napoli, patrimonio dell'Unesco dal 1995, no! Meglio lavorare per capire il da fare cominciando magari a pulire da noi le strade che attraversiamo e "consumiamo", meglio scegliere di guardarci intorno cominciando a sperimentare la bellezza, costruendola quotidianamente. Solo allora la partita si potrà giocare.

La Gazzetta del Mezzogiorno del 21 settembre 2013 

mercoledì 11 settembre 2013

Citta del Libro, che fare?

Che guaio, la Città del Libro edizione 2013 è a rischio. Certo si farà, ma, per l'ennesima volta si mostra fragile nel lento cammino verso una sua stabilizzazione e conferma, traguardo non del tutto scontato. Peccato, si era (forse) all'anno cruciale: la Puglia vedrà quest'anno tornare in "patria" il Forum Nazionale del Libro e della Promozione della Lettura e Campi sarebbe potuta essere una delle tappe del progetto itinerante nato a Bari dieci edizioni fa... "Ma che importa", penserà qualcuno, "son storie da specialisti, a chi vuoi che interessino?".
Il problema della kermesse di Campi - che nelle ultime edizioni sembrava aver trovato un nuovo passo - è sempre stato il "campanile". Una dimensione "strapaesana" che ha guardato al libro come ad un "di più", condimento di un'insalata, senza sapore definito, fatta di passerelle politiche, di pavoneggiamenti autoriali più o meno nazionali, più o meno locali e di folle di scolaresche disinteressate a far da claque utili solo a pompari numeri dei partecipanti.
Anche la Fondazione - voluta nell'agosto 2002 dalla giunta di Centrodestra guidata da Massimo Como con l'intento di "diffondere la conoscenza del pensiero e dell’opera degli autori del Sud d'Italia" (che sarebbe stata una buona prerogativa) - appare ai più concepita come una scatola chiusa da gestire in "privato", con gli Enti Territoriali "seduti" su uno strapuntino, pronti a corre via quando c'è da decidere qualcosa e ben contenti di non decider nulla specie quando si tratta di tirar fuori dei denari. Evidentemente, il libro non scazzica come la pizzica-pizzica e non è più di moda invocare la "destagionalizzazione" e la cultura progettando un'offerta turistica diversa nel tempo in cui l'appeal salentino è tutto declinato all'usa e getta musicale.
Ma quello della gestione "consortile" della "cosa" culturale è la costante nel Salento; altre istituzioni di maggior successo, evidenza e solidità economica ne fanno ampio abuso, facendo finta di non sapere che, le Fondazioni, non devono essere chiuse ed escludenti ma enti di apertura e di dialogo. Enti della comunità che attraverso loro, attraverso la "specializzazione" proposta, si aprono al "mondo", nel caso della Rassegna nazionale degli Autori e degli Editori del Mediterraneo" - questo il sottotitolo dell'ultima edizione della "fiera" di Campi – il "mondo" del libro.
Nei giorni scorsi si è concluso il Festival di Mantova, uno degli appuntamenti più importanti del panorama letterario ed autoriale italiano. In un'intervista Luca Nicolini - uno degli otto privati cittadini di professioni diverse che nel 1997 si sono costituiti in Comitato Organizzatore per dar vita alla manifestazione lombarda – ha raccontato, che il gruppo di lavoro sul programma si riunisce ogni anno, a partite da febbraio, con incontri fissati ogni quindici giorni per fare il punto e concertare via via i temi che andranno "in scena" nell'edizione successiva. Una preparazione certosina motivata dalla passione e da un'attenzione quasi maniacale al panorama editoriale ed autoriale nazionale ed internazionale e alle sue tendenze. Non è così, almeno mi pare, a Campi Salentina.
Un'occasione persa – avviatasi nel 1995 per volere dell’Amministrazione comunale guidata da Egidio Zacheo che individuava nella cultura «il veicolo di riscatto del territorio» - che rischia di deflagrare se non si riesce a mobilitare sul progetto "Città del libro" la partecipazione dei tanti cittadini, operatori culturali, editori, autori che nel territorio lavorano alla promozione della lettura. Un tavolo ampio, un "Forum del libro salentino", dove poter immaginare la possiblità di rilancio della iniziativa campiota o la sua "traduzione" in un altro evento che pienamente punti al valore del libro, della lettura e dell'esperienza autoriale come leva necessaria alla crescita e alla coscentizzazione della comunità.

Su La gazzetta del Mezzogiorno di mercoledì 11 settembre 2013

giovedì 5 settembre 2013

Il paesaggio, la comunità e la comunità delle comunità

Lo scorso 2 agosto, la giunta regionale pugliese, ha approvato il nuovo Piano Paesaggistico Territoriale oggetto, in questi giorni, di approfondimento e discussione in sessioni pubbliche che si terranno in diverse città per favorire la massima partecipazione, l’appuntamento a Lecce è per il 17 settembre. Si legge sul sito che presenta il PPTR: “I paesaggi della Puglia, prodotti nel tempo lungo della storia delle “genti vive” che li hanno abitati e che li abitano, costituiscono il principale bene patrimoniale (ambientale, territoriale, urbano, socio/culturale) e la principale testimonianza identitaria per realizzare un futuro socio/economico durevole e sostenibile della regione. Un’identità che si è costruita nell’azione umana di lunga durata, esito evolutivo di dinamiche relazionali nelle quali le dimensioni dello spazio e del tempo sono indissolubilmente legate”.
***
Il paesaggio è dunque “bene comune”, ma quanti lo considerano tale? Il cittadino e la comunità dei cittadini è chiamata ad esserne il custode ma l’essere cittadino, l’essere comunità è condizione mutevole che spesso sfugge alle responsabilità e al dovere civico; altre volte, l’interesse di campanile tende a prevalere sull’interesse generale del Territorio che è, uno per tutti. Allora la domanda: siamo soli, siamo comunità o siamo comunità di comunità? Nel nostro essere al mondo “micro” e “macro” continuamente si intrecciano, muovono e sollecitano la nostra vita, la nostra attenzione, il nostro organizzare l’esserci e il fare. Poi, c’è l’indifferenza!
“I paesaggi della Puglia sono a rischio – si legge ancora nel prospetto che presenta il PPTR - il degrado e la progressiva compromissione del patrimonio paesaggistico pugliese sono sotto gli occhi di tutti. Ancora più aggressivi degli agenti ambientali (...) sono i comportamenti sociali, i processi di sviluppo economico e i nuovi stili di vita che incidono sempre più sul paesaggio e ne alterano la bellezza e la integrità”.
Il nostro Salento è nel travaglio. Conservarlo è il pensiero di molti (una minoranza, almeno così pare), molti altri (con la complicità di una maggioranza silenziosa e accondiscendente) lo immaginano diverso: inseguono “mode”, la volubilità del mercato, l’impermanenza.
Il modello Salento, dagli anni Novanta in poi, ha avuto vari interpreti, si è partiti dall’idea del “Salento da Amare” e dall’immagine del “parco” per approdare poi al Grande Salento, alle accelerazioni di un “modernismo” scellerato senza progetto disegnato su misure “datate” e subalterne alle logiche di un “industrialismo” che ha fallito il successo sperato. Un esempio per tutti: la S.S. 275 che collega zone industriali abbandonate, mai decollate… Certo, c’è necessità di migliorìe su quei tratti stradali, ma non così enormi, così deturpanti. Invocare la sicurezza è un conto altro è, favorire le lobby dell’asfalto e del cemento approfittando (a casaccio) dei lauti finanziamenti dell’Unione Europea e così, la Maglie–Otranto si spera veloce così come la Regionale Otto. Intanto si ferisce il paesaggio attaccando il suolo agricolo, si spiantano ulivi salvo poi celebrarli, nelle vetrine enogastronomiche, come fonte d’identità e di autenticità.
Normale schizofrenia politica? No, c’è molto di più. C’è il non essere comunità nella comunità. C’è l’assenza di un piano, di una visione capace di immaginare il territorio nella sua unicità e complessità. Non c’è un “insieme” e fa sorridere chi invoca Ibiza come modello da perseguire.
In questi ultimi anni abbiamo assistito a fatti emblematici, hanno riguardato piccole comunità ma avrebbero dovuto chiamare l’intera comunità salentina alla sollevazione, all’esercizio del giudizio, della critica e della proposta.
Due esempi “piccoli” ma molto significativi.
Torcito affidato dalla Provincia all’impresa Intini Source Spa, viene deturpata. Un appalto di oltre 3 milioni e mezzo di euro, somma stanziata grazie al programma Interreg II Italia-Grecia, per la “valorizzazione delle potenzialità turistiche della Masseria Torcito”. Nel corso dei primi lavori un’intera collinetta viene smantellata e uno storico albero, caro agli abitanti di Cannole, sradicato e fatto a pezzi: una ferita alla memoria della comunità. Una leggerezza dovuta al mancato controllo, esempio di una colpevole sciatteria del fare politico che esulta nel disfarsi dei beni pubblici, di pezzi di territorio e subito si de-responsabilizza, dimentica. Il controllo è lo strumento, la tenacia del controllo è il compito che permette alla comunità di essere presente ed efficace nei processi di cambiamento. Ma ciò che è peggio è stato l’abbandono e il continuo oltraggio subito da Torcito in questi anni, un luogo recuperato alla funzione e restaurato non più di 15 anni è diventato oggetto di un nuovo intervento di recupero. Di chi la responsabilità? Della Provincia di Lecce proprietaria del complesso che non ha saputo dare destino a ciò che era suo?!
Altro esempio, senza danni questa volta, ma significativo dell’inedia delle amministrazioni pubbliche e dell’indifferenza dei più, è l’affidamento al FAI dell’Abbazia di Cerrate: è bastato pulire, sistemare le luci per ridonare decoro al luogo, certo verranno altri provvedimenti (speriamo non troppo invasivi) ma van già bene quei piccoli interventi di manutenzione: l’ordinario è miracolo dove impera l’abbandono e l’indifferenza.
C’è adesso il grave problema della gasdotto transadriatico, il tubo che dal mare porterà in Europa il gas naturale proveniente dall’Azerbaijan, opera considerata strategica dal governo italiano e dall’Unione Europea. Di tubi, con le loro piccole e grandi emergenze, ce ne sono altri: portano le acque reflue - e le incazzature di altre comunità - in mare. C’è ancora l’invadenza del fotovoltaico e dell’eolico. Insomma, un gran da fare in un Salento che in realtà non sa che fare e che, incredibilmente, perde il contatto con le sue necessità e i presidi culturali che potrebbero essere capaci di difenderlo.
“Non vendete la vostra terra per un piatto di lenticche” ammoniva Giovanni Lindo Ferretti in un’epica edizione della Notte della Taranta. Così non è stato e quell’evento - invece di essere luogo di riflessione sulla tradizione e di proposta anche politica - nell’ultima edizione conferma il suo essere diventato dispositivo di annientamento dei valori ispirativi in favore di ritorni d’immagine e di affari. Neanche un “pannolino culturale” è stato esibito in quest’ultima edizione della Notte tutta spesa all’inseguimento della Rai, considerato il “massimo” traguardo. Va bene così! Se la volontà è far così...
Ma c’è da sperare altro. C’è una “minoranza” attiva, parlante, proponente, che spera e vuole altro. Ma come diventare maggioranza? Il “che fare” può essere governato dal “no”? Questa la domanda. E ancora: è possibile lavorare oltre la consueta e logorata rappresentanza politica ispirando processi di partecipazione dal basso capaci di riflettere sulla complessità e sulle emergenze del territorio?
Sì, se i movimenti maturano le loro istanze. Sì, se si è in grado di ispirare l’agire collettivo con azioni propositive e costruttive; se si è capaci di portare alle luce le contraddizioni di piani di sviluppo vuoti di futuro. Sì, se si fa alta l’istanza maieutica della politica.
Un’occasione (forse) c’è: “Spero che, nel corso del confronto sul piano Paesagistico Territoriale Regionale - scrive Angela Barbanente - avremo modo anche di approfondire la parte strategica del piano, per evidenziare quante potenzialità di sviluppo siano dischiuse dalla conservazione, tutela, riqualificazione e valorizzazione del patrimonio paesaggistico regionale. Mi riferisco, in particolare, allo “scenario strategico”, articolato in azioni, progetti e politiche, finalizzati alla attivazione di nuove economie e sistemi produttivi a base locale e all’integrazione fra le politiche del paesaggio e politiche di sviluppo rurale, di mobilità e trasporto, energetiche, di sostegno alle attività produttive e alla promozione del turismo”.
Le comunità e la comunità delle comunità sono chiamate alla presenza!

Su La Gazzetta del Mezzogiorno di giovedì 5 settembre 2013

sabato 17 agosto 2013

Tap, una nuova intelligenza per il "no"

di Mauro Marino*

Sotto il sole viene bene leggere, ma poi, il calore, rischia di mischiare i pensieri che debordano e un "no" radicale può farsi via via mansueto e farsi possibilità... Un colpo di sole! Solo quello?
La visita di Enrico Letta nella terra del gas nei giorni scorsi ufficialmente impegna il governo italiano nel progetto Trans-Adriatic Pipeline. E' cronaca: "l’accordo sulla Tap è centrale non solo per il futuro dell’Italia, ma per tutta l’Unione europea" sono le parole di Presidente del Consiglio italiano a Baku al cospetto del presidente dell'Azerbaijan Ilhan Aliyev, al quale ha ribadito la propria “soddisfazione” per la scelta del progetto del gasdotto che, attraversando Turchia, Grecia ed Albania, arriverà in Italia, in Puglia, a San Foca, portando in Europa il gas del Mar Caspio. Un'opera che "in prospettiva sposta il cuore degli hub energetici europei”.
Sembra tutto deciso. Fatto! A che serve scalmanarsi allora contro un progetto considerato dalla Unione Europea di "comune interesse"?
E se provassimo ad avere dei pensieri "osceni" e sulla questione ci allenassimo a ragionare in termini di garanzie per la tutela del territorio? Ad elaborare una nuova intelligenza dell'essere "movimento? Si potrebbe dire: «Vi facciamo passare il gasdotto ma puntiamo ad una valorizzazione complessiva della bellezza e della particolarità territoriale con iniezioni di denaro e di progetti tutti volti alla compatibilità e al risanamento ambientale». Ridiscutiamo le grandi opere, i progetti delle "grandi" strade, l'abbandono delle zone industriali, il tradimento delle campagne invase dal fotovoltaico. Ridiscutiamo di cultura e di turismo, ridiscutiamo di molto altro, ce n'è bisogno...
Parole grosse certo. Parole tante volte sentite, ma si tratta questa volta di considerarle nella possibilià concreta di attuarle tentando "organismi" capaci di gestire quella che si annuncia come un'emergenza. Una grande opera è sempre un emergenza che dovrebbe sollecitare attenzione, cura, dedizione e tempo dedicato prima, durante e dopo la sua realizzazione. Non sempre (quasi mai è così) e allora spetta a chi è portatore di "no" radicali disporsi all'invenzione di pratiche che dall'antagonismo si volgano alla gestione del bene comune... Chi deve avere "vantaggi" da un'opera indigesta non devono essere allora le solite lobby, le congreghe politiche ma l'intera comunità se solo fosse capace di considerarsi tale, se solo ci fossero energie capaci di "educarla" a percepirsi tale...
Siamo giunti al nodo di un processo storico avviatosi negli anni Novanta. Il "capovolgimento del Mondo" giunge a compimento e gi sbarchi degli albanesi che recentamente abbiamo celebrato guardando film, servizi tv e fotografie fanno tenerezza. Adesso il Salento, questo Salento, si appresta a divenire punto di approdo della nuova "autonomia" energetica dell'Europa: basta con il gas di Putin- (e Berlusconi) è l'ora nuova... E allora chissà - e questo è altro pensiero osceno (?) – che non sia un caso che il Ministro della Cultura di Letta sia un "salentino", Massimo Bray, già presidente della Fondazione Notte della Taranta miccia della deflagrazione culturale di questo territorio e che non sia un caso la candidatura di Lecce a Capitale della Cultura nel 2019, verrebbe più facile se aiutassimo "in prospettiva – a spostare - il cuore degli hub energetici europei”.

*su La Gazzetta del Mezzogiorno di sabato 17 agosto 2013

giovedì 1 agosto 2013

Lecce dello sgoverno

Il buon Airan Berg - Coordinatore Artistico di Lecce2019 – racconta, nei suoi incontri, che quando intrecciando le mani ponendo il pollice destro su quello sinistro non sentiremo alcun senso di difficoltà saremo pronti a divenire Capitale della Cultura Europea.
Credo sia un modo per dire che non potremo mai farcela...
Scherzo ma in cuor mio lo credo anch'io visto come van le cose e certo – non sottraendomi all'impegno - proverò piacere quando capiterà di superare le varie fasi che ci avvicineranno al 2019...
Intanto, in attesa e sperando che qualcosa realmente accada (ma non credo ai miracoli), ne vediamo delle "belle" nella "città bottega" che questo pare si diventata Lecce, sempre più sgovernata, sempre più allo sbando, invasa dal nulla turistico che sacrifica la qualità alla quantità...
Alcuni giorni fa, in Piazza Sant'Oronzo, ci si preparava all'ennesimo (ingombrante) evento: il solito lampione smontato, il travaglio delle pesanti fioriere in pietra leccese per l'ennesima volta sollevate e spostate (una adesso giace imbragata e rotta), l'arrivo del grande palco nero su ruote e via via i bagni chimici, le transenne e tutto ciò che serve a trasformare il "salotto" della città in un'arena...

Nella stessa mattina, una piccola e poetica parata di attori con un minuscolo tavolino ha osato far sosta nella piazza del Santo. É bastato il solo esserci per sollecitare la piccata "solerzia" del vigile urbano di turno che s'è messo a chiedere permessi, licenze e non so cos'altro... La Compagnia (anzi le tre Compagnie) eran lì per dire alla città che una significativa rappresentanza del teatro leccese era in partenza per Edinburgo, in Scozia, per prender parte ad un'importante kermesse... Ma avevan fatto male i conti gli attori, alla città candidata a divenire capitale della cultura nel 2019 non interessa nulla del lavoro dei suoi artisti, non interessa nulla della libertà d'esprimersi, delle difficoltà che, chi opera nel creativo - che è poi lavoro rivolto alla comunità e al suo crescere – trova nel quotidiano, per cui, meglio tacere, partirsene e sperare che altri successi giungano magari la proposta di rimanere ad Edimburgo per dar lustro con l'arte ad altri luoghi, ad altre civiltà e ad altre culture.

Quella di "Reinventare Eutopia" - così è stata battezzata l'operazione candidatura - è una grande opportunità per la nostra terra, ma c'è molto da fare, tanto! Prima di tutto tentare di capire che i luoghi del fare culturale devono essere luoghi aperti, capaci di accogliere e di elaborare le istanze espressive. Lecce non ha ancora compreso bene come destinare le sue risorse: Castello, Teatini, Conservatorio Sant'Anna, adesso il MuSt procedono a vista, mancando di una direzione confondono ruoli e funzioni. Non si è ancora capito quali sono i luoghi d'eccellenza e quali (se è il caso di averne) gli incubatori... capita che attraversando questi spazi ci si chieda se mai i nostri amministratori si siano recati in visita in qualsiasi altro luogo destinato alla "cosa culturale" in Italia o in Europa... Ciò che manca nei nostri spazi è il decoro, il rigore, la costanza operativa, l'anima di ricerca... la coerenza di linea... Nonostante le pretese siamo una città del Sud per cui l'approssimazione può essere imputata al genius-loci, ma sarebbe un onta a quella capacità di rendere regali anche la più piccola e povera cosa che la cultura popolare di questa terra ha dimostrato di avere nei tempi trascorsi... Ma a che serve curar la nostalgia se il presente è smemorato e preferisce la mondanità dei vernissage che spesso non inaugurano nulla, che spesso non hanno occhi per comprendere che la precarietà non è valore e la bellezza ha bisogno di buon concime per farsi matura e certa...

sabato 15 giugno 2013

W il Barroccio, il Barroccio viva!

Una mattina al Barroccio in una foto di Roberto Pagliara

W il Barroccio, viva il piacere dell’incontro, viva l’informale nella vita che condisce l’attesa, il nulla, lo stare.
W solo per noi! Per chi sa di cosa scrivo, ché per gli altri è difficile sentire il cuore, osare con gli occhi, aprire le orecchie e stare, stare nell’ascolto di sè e degli altri.
Questo è stato in questa parentesi felice il Barroccio, il chiosco che abita all’inizio di quel boulevard ridisegnato - espiantando l’antico alberato di Pini marittimi - proprio per trasformarsi in un luogo di incontro e di socializzazione. Opera di Adriana Poli Bortone (e di alcuni dei suoi che ancora siedono a Palazzo Carafa) lei, loro sognavano (e ancora sognano) la città europea...
Lo ricordano gli amministratori?
No, certamente no, loro sono fatti per scordare, programmati nel breve termine mostrano continuamente di non avere una visione della città, di non amarla questa città e continuamente di tradirla nelle sue aspettative e nelle sue autonomie espressive.
Pensate: per “chiudere” il Barroccio si invoca una sorta di incompatibilità ambientale. Parlano di stile i solerti vigili urbani, che con raro zelo si votano alla causa della tutela ambientale e del rispetto dei beni architettonici senza alzare gli occhi e guardare poco più in là, per censurare (quello si che lo meriterebbe) l’orribile recinto che cinge ormai da mesi l’imbocco del largo dedicato a Angelo Rizzo, deturpando lo sfondo dell’Arco di Porta Napoli. Bazecole direte, ma sapete (certo lo sapete) quante se ne vedono in giro? L’elenco sarebbe interminabile, provate a guardarvi intorno... Ma che fare se la città che aspira a divenire Capitale della cultura nel 2019 preferisce il dettato del karaoke alla libera palestra dell’incontro artistico? C’è solo da far le valige e partire. Sarebbe un sollievo... ma meglio non concederlo questo sollievo agli invidiosi e agli incapaci. Meglio di no e tentare di risolvere insistendo con la Cultura quella che sperimenta l’incontro e lo calibra nell’altrove, nella ricerca, nella consonanza, nello stare, nel niente di una sera passata a conversare... W il Barroccio.
Soltanto viva!

giovedì 9 maggio 2013



Vent’anni fa moriva il Poeta di Caprarica

Oh Verri, che tu sia tarantato

L’impegno di oggi è quello di tentare una larga socializzazione
della sua opera di scrittore e di operatore culturale... 

La proposta: perchè non dedicargli l’edizione 2013
della Notte della Taranta?

Abbiamo cominciato già dall’inizio dell’anno a celebrare quello che abbiamo voluto chiamare Anno Verriano, per riattraversare la complessità dell’operare di Antonio Verri nel ventennale della sua scomparsa. Sinora abbiamo pubblicato nelle pagine del nostro giornale  contributi  su, di e con Antonio Verri.
Oggi, 9 maggio 2013, è il giorno della ricorrenza, il giorno della mancanza.
Noi, Antonio, continuiamo a sentirlo vivo, attraverso la sua scrittura e, in queste ultime settimane, attraverso le persone che da vivo lo sentivano fraternamente amico nell’operare. rilegendo le lettere  a lui rivolte che in questa pagina sono quotidianamente pubblicate a cura di Maurizio Nocera.
 *  *  *
Nei giorni scorsi una, di lettera, l’ho rivolta a Sergio Blasi e a Sergio Torsello chiedendo loro che l’edizione di quest’anno della Notte della Taranta fosse dedicata al Poeta di Caprarica. La rendo pubblica per spiegarne le ragioni:

Verriana
scritture, voci e suoni per ricordare un poeta

Abbiamo necessità di condividere un amore, quello per Antonio Leonardo Verri: una passione certa, consolidata in letture che ne confermano il valore ed un necessario nuovo transito di identità generazionale...
Per farlo abbiamo bisogno di uno sforzo grande e di un luogo grande per dare il giusto risalto a quella che riteniamo essere una delle figure centrali dell'identità culturale salentina e del nostro ultimo Novecento.
Un Novecento letterario e culturale che, in quell'artefice, ha trovato, e ancora trova, gambe per proiettarsi in questo nostro, nuovo, malandato Tempo.
Antonio Leonardo Verri è stato (e ancora è) “levatrice” di visioni e di sogni che affondando le radici nella gloria di Otranto, nella sua cultura di Terra e di Passioni, hanno potuto immaginare Guisnes la città - verriana - dove tutti i generi si mischiano divenendo "naviglio innocente", grossa lettera, unico corpo.
Il sogno del Declaro è adesso, è la macchina della memoria, è il PC.
Antonio Verri – il nostro tempo – il battito contemporaneo - l'ha solo presagito, l'ha raccontato per intero, mischiando lingue.
Le sue e quelle di quanti in lui si sono sentiti uno. Uniti in un agire che ha dettato le regole di un operare culturale ancora utile, anzi, ri-fondante di pratiche possibili nel presente.
Lui, è mancato prima, per farsi in noi "Profeta".
L'evento che immaginiamo possa essere attuato nella cornice del festival della Notte della Taranta  può avere varie dimensioni (si può, volendo, pensare (e facilmente realizzare) una mostra con materiale fotografico ed editoriale o un'opera multimediale che può accompagnare il festival... nelle sue tappe...
Si può immaginare, un atto di riepilogo di questo anno di ricordo all'ombra e nel rammarico dei vent'anni dalla scomparsa.
Oppure solo concertare un omaggio d'una sera, pensando però (oso!) di dedicare ad Antonio Verri (com'è stato in passato per altri interpreti della Terra Salentina) l'intero Festival dando il giusto risalto alla figura del Poeta e dell'Operatore Culturale con una nota in catalogo, la lettura di alcuni suoi versi in apertura del Concertone ed una serata a Lui dedicata con un recital e una conversazione...
Questa prima lettera può essere considerata un inizio di dialogo... per meglio "combinare" (parola di Verri questa...) la cosa...
In attesa di un vostro riscontro,
cari Saluti

Mauro Marino

*  *  *
Ecco quanto chiesto, una vetrina, e che vetrina, per far sentire e raccontare di AntonioVerri al Mondo...
Noi torneremo da domani a riproporlo da queste pagine (e prossimamente in un blog che le raccoglierà), ogni giorno per tutto l’anno o meglio per tutto il tempo che ci è dato...

mercoledì 8 maggio 2013

Lara Carrozzo, Più suono, da Lupo



La poesia suona, fa canto nel rimando del senso. Ce lo hanno insegnato a scuola prestando il gioco della rima alla banalizzazione della memoria. Oh!, quanta fatica spesa per tenere a mente dei versi, chissà perchè poi, per quale oscuro progetto educativo...
Oggi si usa la lettura a voce alta che è il vero destino dei versi, il luogo - quello della voce - dove rivivono per dare eco, continuità e vita a quella primaria esigenza e necessità espressiva che li ha dettati al poeta.
Lara Carrozzo  cerca e dona “Più suono” nella sua nuova raccolta di poesia edita da Lupo.
Il libro si apre con una citazione di Friedrich Nietzsche: “Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica”, era ed è così - è così sempre di più - nel nostro povero mondo perduto, stinto... svenduto... che ha dimenticato l’amore, l’amare e la necessità dell’altro, salvo poi immaginarlo proprietà ad uso e consumo del proprio sciatto e vuoto egoismo.
Non è il caso dei poeti, e Lara Carrozzo è poeta vera nell’inseguire e nel “raccontare” l’amore, l’amato, l’altro.
Ce lo dice indagando nelle “terre estetizzanti dell’io” mentre ne insegue il sebo,  tra i capelli, mentre lo chiama Dante o lo chiama nonna... il due, l’altro necessario, ciò che manca al Mondo. Alla sua piegata e piagnucolosa indifferenza...
A lei no, al poeta no e scrive: “Nella solitudine della scrittura/ avrei molti e molti/ ricordi da sfogliare,/ ma termino ogni volta/ che soggiunge l’incantesimo/ di una poesia reale:/ la nascita del “noi”.
La pausa del verso è nella gioia, lì dorme per incubare mancanza. Per sentirla graffiare in cerca di un “più”
*  *  *
Più suono” sarà presentato domani venerdì 10 maggio, alle 19.30, con la partecipazione di Giovanni Invitto, alla Feltrinelli point di Lecce.

sabato 4 maggio 2013

Le bagatelle di Lady Macbeth di Aldo Augieri per Asfalto Teatro

Il teatro salva gli occhi in questo tempo oscuro. Sempre lì, la parola suona libera, al riparo e l'attore pare tornare al tempo dell'origine quando da hypocritès (che in greco antico significava "colui che risponde") poteva dire, e dire, e dire.
*  *  *
Una frase tra le molte sentite  in "Le bagatelle di Lady Macbeth" - che un ormai rodatissimo Asfalto Teatro ha portato in scena sulle tavole dei Cantieri Teatrali Koreja lo scorso 31 marzo – una frase, m'è rimasta a suonare dentro per l'intero giorno dopo (e ancora adesso): "Il bello diventa brutto e il brutto diventa bello".
Il fatto è, che il giorno dopo, il 1° maggio, ho scelto di trascorrerlo a Taranto, la meravigliosa Taranto, dove appunto ciò che era bello pare sia diventato irrimediabilmente brutto anche se la città – nonostante tutto - mantenga una sua profonda dignità.
L'Ilva, sullo sfondo, con i suoi carichi di veleni, ma più ancora la ferita che si mostra  traversando il centro storico, l'isola di là dal ponte girevole.
E Lady Macbeth pare prendere le sembianze di quella politica - che chissà quanti misfatti a suggerito alle orecchie dei suoi Macbeth, esecutori di crimini che certo lasciano liberi fantasmi e ossessioni, ombre e paure.
Macbeth, ha ucciso il sogno, non dormirà più, come non dormiremo mai più noi, presi dal giogo mai germinante di una guerra diventata sottile, pulita anche, ma intatta nel suo produrre morte.
Non è guerra quella che ogni giorno i grandi finanzieri consumano a danno dei più?
Non è guerra?
*  *  *
Aldo Augieri sa come fare, con e attraverso i suoi attori, ad evocare la contemporaneità in giochi che attraverso la parodia portano a fondo l'attacco al sistema ben pensante...
Atti di calabritissima anarchia, perciò esatti, scientifici, producono il suo Teatro, che è proprio Teatro, se pensiamo alla costruzione scenica come attivazione di una macchineria che può osare (e osa) anche oltre l'attore.
Una macchineria che va a pescare anche nell'antico modulo rotante per il cambio scena, o nell'aprirsi e chiudersi del sipario (elemento essenziale nelle scritture di Augieri) anche su scene brevi ma di grande impegno scenografico come nell'episodio che ritrare – ne le Bagatelle - la Lady nella penombra della sua camera da letto.
Molta cura negli abiti di scena, negli oggetti e nelle maschere, una puntigliosità che tocca quasi ossessioni orientali muovendo sistemi segnici che incantano e disincantano col venire della musica.  Delizioso nelle Bagatelle il voltar pagina segnato da stranite arie francesi...
Un artificiosità virtuosa che è trasferita anche nei e sui corpi degli attori resi al limite caricaturale. In scena abbiamo visto con lo stesso Augieri che fa la Lady, Totò Del Popolo che è Macbeth, Davide Morgagni che è Duncan e una stralunata Margherita Manco impegnata sulla linea del sipario, a mischiare le lingue e a ubriacare la speranza...
Maschere attive di una drammaturgia che nulla risparmia. La lezione beniana – ma non solo quella – è ben digerita affianco ad attraversamenti letterari capaci di fondere e reciprocamente suggerire come in questo caso, dove Shakespeare e Cèline dialogano e insieme graffiano.
C'è il piacere del testo nel teatro di Aldo Augieri, la catena delle parole è la virtù che da "fuoco all'anima, vibrando, come nel vero teatro" così qualcuno dice in scena.  E così crediamo sia, anche noi!
Una scena che osa, quella di Asfalto teatro - storicamente ormai - nella generosa scena salentina - profondamente osa traversando la classicità, con le radici ben piantate in una tradizione che profonda appartiene al Teatro e all’intera sua cultura.

martedì 30 aprile 2013

"Bocche di dama", molto di più di uno studio

Quante voci abitano nel sentire di un attore? Tante quante il suo pensiero ne corre, “immaginandole” e basta un piccolo cenno a condurre nel cambio, nell’intesa del personaggio. E così, le storie prendono forma, anzi corpo e le drammaturgie trovano svolgimento come nelle pagine di un libro posto davanti a noi che, a “bocca aperta”, siamo chiamati ad assistere al prodigio che sul palcoscenico prende vita. Ogni volta così, lo stare al cospetto di quella linea.
La storia che “Bocche di dama” ci racconta, è doppia, lo spettacolo, al suo debutto come studio, è andato in scena al Teatro Paisiello domenica 29 aprile, a chiusura della stagione teatrale dell’Amministrazione Comunale di Lecce diretta da Carla Guido, che ha dedicato il ciclo di Teatro a 99 centesimi alla fiorente e fiorita scena locale.
*  *  *
In apertura, il déshabillé di una sposa, presa nel da fare dei preparativi delle nozze con l'ansia di rigore placata con una, due, tre... quattro bustine di camomilla e... tranquillante, nella minestra del papà. Poi, la sequela di tutto ciò che era in uso al tempo in cui la narrazione trova ambiente: gli anni Cinquanta introdotti da un mambo accennato dalle melodie percussive di Vito De Lorenzi che accompagna le coloriture sceniche e i toni di Angela De Gaetano che in questo spettacolo – interamente suo – si conferma straordinaria attrice, ma anche fine drammaturga e accorta regista.
Un pretesto narrativo – quello delle nozze - che diventa storia.
Un’altra storia: il segreto che la signorina Doriana, l’acconciatrice, ha conservato per l’ultima sposa che avrebbe pettinato. E, dal sorriso, si apre la strada al “pianto”.
A prendere “pagina” è il blu di un nastro. Apparteneva a Mariuccia, la figlia di Donna Teresa e di Don Leo barbiere, usuraio e uomo di violenza, condannato ad avere intorno solo figlie femmine; per la rabbia, quando non la scontava su di loro, andava a sparare contro il mare….
A far da scena Lecce, la città popolare che non c’è più, quella che aveva ancora la fontana con i cavalli alati in Piazza Duomo a far da cornice ai “primi amori” e aveva cuore sotto la tettoia liberty del mercato, la “chiazza cuperta”, che rivive nei frame d’immagini che Angela De Gaetano ricostruisce con le variazioni di ritmo e d’intonazione della voce. Tic, movenze, storpiature di linguaggio plasmano l’ambiente e i personaggi che lo abitano.
E le senti le urla rimbalzare tra i grandi banchi. Erano di marmo chiaro, pregni di odori, esponevano le merci, tutte le merci del Salento, a Km 0, quando il Km 0 non era ideologico come ora. Oggi, quel mercato sarebbe una ricchezza per la città turistica, il valore aggiunto di quella tradizione eno-gastonomica divenuta “spaccio” esclusivo, cosa d’elite in mano agli chef, lontana dal popolo a dalle sue grida e dalle sue voglie.
Tra i banchi quello te lu Pippi Zeppu e de l'Annina delle cozze (i nonni a cui l'attrice – con l'intero spettacolo – ci pare rendere omaggio) e quello te lu Mozzeca... il fischio di Franco Pallina, da il “ciak” all'azione che introduce la figura del “Signor Don Sindaco”.
Momenti di intensità, di grande ilarità tenuti sapientemente sul filo, sospensioni che calibrano il divenire narrativo continuante introducendo personaggi, somma di un popolo e di una nostalgia.... fino ad arrivare ad immaginare gli angeli dipinti in cima al palazzo della “Torinese” (così si chiamava un tempo la grande dimora che è di fronte al Cinema Massimo) che rubano il prezzemolo nel giorno delle nozze del figlio del sindaco con la figlia del cravattaro-barbiere... 
Non Mariuccia però - la costretta-promessa - a lei tocca un altro destino...  ed è l'amore a muovere il racconto – il centro po-etico dello spettacolo. Un amore di quelli che quando  inizia e non sai come chiamarlo. Uno sfioramento, un ballo, un bacio. Il sogno-necessità  della fuga,  la libertà per quello che gli altri considerano il difettuccio. Ed un altro limine prospetta Angela De Gaetano col suo narrare, un confine da contemplare, avvertito da una distanza costruita con una sedia, a fare un davanzale, da cui s'affaccia prefigurando il di fronte di una terrazza dove Agata invano, accoglie.
Uno svolgimento ed un epilogo sorprendente quello di questo “cunto” che Angela De Gaetano porta al pubblico con sapienza e fine “esattezza” attoriale in quello che si dimostra essere   molto di più di uno “studio”.

sabato 27 aprile 2013

L'annuncio di Bocche di dama di Angela De Gaetano al Teatro Paisiello



Si chiude -  domenica 28 aprile, alle 21.00, al Teatro Paisiello - con il primo studio  di Bocche di dama di e con Angela De Gaetano la rassegna Teatro a 99 centesimi promossa dall'Assessorato alla cultura del Comune di Lecce con la direzione artistica di Carla Guido.
Angela De Gaetano,  accompagnata alle percussioni da Vito De Lorenzi per la prima volta si cimenta in un’opera tutta sua, che la vede assoluta protagonista in scena, autrice drammaturga e regista.
Lo spettacolo, racconta Angela De Gaetano, è “un atto d'amore. Una storia ambientata a metà tra i giorni di oggi e gli anni cinquanta, in un mondo che ormai non c'è più, fatto di ambizioni, invidie tra famiglie, preparativi, pranzi della domenica,  teneri legami, bugie, fughe nel cuore della notte”.
L’attrice-autrice, che indaga il femminile e il suo universo, dedicando lo spettacolo a chi per difendere il rispetto della diversità, l’onestà e l’amore, opera scelte forti e piccoli gesti nel quotidiano.
*  *  *
Angela De Gaetano è certo attrice di grande caratura e di grande cultura teatrale in lei il temperamento trova forza nel personaggio, come uno svelamento di qualità sottese, dormienti che nel gioco interpretativo trovano carne: corpo e coraggio.  Così è l’attore quando la materia teatrale trova nell’inquieto e in una naturale ritrosia  e riservatezza il lievito per venire alla luce. Il pudore è sempre generativo; lì, la virtù, in quel riparo, è pronta ad accogliere la spinta che la scena chiama. In altre/i è il narcisismo istrionico a muovere... non è il nostro caso.
La dote attorale di Angela De Gaetano è frutto di un lungo lavoro di studio e di preparazione - oseremo dire “odiniana” con quella precisa cura che l’attore fa del prepararsi e dello stare in scena tendando l’esatto calibro dell’energia, prima di tutto fisica, perchè è in quella che abita il segreto poetico della sua “macchina”. I Cantieri Teatrali Koreja la palestra della formazione e poi un lungo percorso da outsider che l’ha vista militare in quella che è ormai la grande ( e confermata) scena teatrale salentina. Nell’ultimo spettacolo in cui l’abbiamo vista era Giulietta. Una interpretazione fisica, per molti versi sensuale anche se la drammaturgia disincantante di Tonio De Nitto la chiamava ad un portamento marionettistico, con movenze da teatrino che meglio incardinavano l’opera di Shakespeare nelle necessità di una  narrazione contemporanea del dramma di Verona
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Adesso questo suo nuovo dono...
M.M .

Info e prevendita: Castello CarloV- Tel 0832.246517

sabato 20 aprile 2013

Ubu nella Casa di Borgo San Nicola


Mamma Ubu e la soldataglia in una fotografia di Roberto dell'Orco

Ubu Re va in scena!
C'è da prepararsi dal mattino, il luogo della recita lo chiede, anche l'orario, l'appuntamento è alle 15.15 nella Casa di Borgo San Nicola, il grande (e in-capace) carcere di Lecce, immerso in una assolata piana della campagna fuori le mura.
Si arriva, nel grande parcheggio destinato ai visitatori, ci si "alleggerisce" di tutto il possibile e, varcato un corridoio stretto in una cancellata, si viene ricevuti, c'è una lista, si lascia il documento e, dopo una breve attesa, si entra.
È angusto il foyer della sala teatrale. Arrivati, le divise son maggioranza, con il primo gruppo di spettatori il confronto è impari. Il caldo è ancora più clado qui, oltre il cancello e soprattutto dopo il grande portone a scorrimento che fa da diaframma tra il dentro e il fuori
Il pubblico viaggia in navetta, dieci per volta nel luogo dei cancelli e dei numeri, lentamente.  A superare il blu delle guardie penitenziarie bastano due viaggi. Le porte che aprono alla sala recano il n°21 e il n° 20. C'è una porta con un 30 e una con un 27. Segnati in rosso: numeri di una insondabile cabala...
Di la dal 21-20 si scaldano.
Il gruppo degli attori fa il piccolo chiasso dell'incitamento, qualcuno prova a sbirciare... La regista appare, al braccio la spirale di Ubu, conforta quel segno, specie adesso che le divise scompaiono in una gioiosa dis/ordinanza borghese. Entriamo e ci accorgiamo di essere alle spalle degli attori.
E' già Ubu con la sua soldataglia! Un quadro, netto preciso, riferimento ad una iconografia classica per chi è avvezzo a questo repertorio. Una novità coloristica e compositiva per chi per la prima volta è al cospetto dell'opera di Alfred Jarry.
Aspettano in piedi, in linea. Una linea spezzata da una grande scatola bianca... Aspettano che il pubblico sieda e smetta la chiacchera.
Domina il bianco-giallo della lana nei costumi realizzati da Lapi Lou. Un leggero fondo bianco anche sul viso e la gota fatta rossa  con un pallino... C'è anche Simone Franco nella linea, l'attore, l'unico libero, che per ritrovare senso al mestiere "s'è fatto arrestare"...
L'attesa si rivela lunga. La linea degli attori aspetta, aspetta, aspetta. Un pò troppo quell'essere esposti. Ma sono impeccabili e poi è tutto tempo preso al carcere. Una piccola libertà stare lì.
Da protagonisti poi...
Paola Leone, la regista, fa rivista della truppa e scambio d'occhi con i suoi, a rinfrancare. L'aver cura è dote di chi governa e solo queste rimangono contingenze degne d'essere momento civico, civile, di cura e di scambio reciproco.
Il teatro in carcere, riscatta la scena, la pulisce dalle scorie e mette noi pubblico nella condizione della com-passione, quella che sempre si deve provare al cospetto dell'attore per meglio concertare il suo darsi di corpo con le nostre attese.
Qui, la necessità è certezza.
E' il canone costruttivo. Nulla è in più e, il patto d'occhi, è libero di accogliere l'agire, l'essere in scena: il gioco dell'essere attore.
Comincia lo spettacolo.
Grazie a Jarry che sedicenne scrisse il suo atto di surrealtà la conquista della Polonia, di qualunque Polonia, è ora possibile. E qui la Polonia possiamo ben capire cos'è. Non c'è bisogno di scriverlo!
*  *  *
La scatola bianca al centro si apre e accoglie i corpi. Rumore d'acqua all'esterno e un mormorare che cresce. Voci potenti si alzano, chè gridare viene bene quando lo puoi fare. Hai aria e polmoni da spendere.
Casa Ubu si mostra Madre Ubu, il Capitano dei Dragoni, Ubu stesso con le sue brame... e poi la cacca, la "merdre" di Jarry, che fa il raccontare materia... Ma che bontà, ma che bontà... canta Mina a accompagna l'offertorio ed è subito chiaro cosa il potere dona, all'altro, quando è potere.
La scatola – pensata da Juri Battaglini - è la chiave scenica del divenire dell'atto, è mobile, leggerissima, disegna le inquadrature con il suo interno nero che diventa sfondo scomponendosi ad accogliere le azioni: scena bellissima l'arrivo e la caduta del Re di Polonia, la regina lo piange recitando sotto un elegantissimo velo di plastica trasparente che ingloba la voce.
Bellissimo anche il farsi d'ali delle quinte che ruotano mosse dall'energia della soldataglia. Segno distintivo del corpo-danza della Compagnia  Factory, che sempre chiama leggerezza nel contrappunto con le scelte musicali che cuciono il "pop più pop" con sinfonie russe e con sospensioni che fanno valzer le marce militari...
Sul lato destro della scena, le guardie penitenziarie a schiera sulla 20-21, ridono... rapite!
Un bellissimo triciclo – disegnato e realizzato da Dario Rizzello e dagli allievi  del Liceo Artistico V. Ciardo di Lecce – porta in trionfo il vincitore Ubu e la sua guasta ufaneria, l'orgoglio e la vanità che tutto consumano rendendo vana ogni relazione, ogni costruzione, godendo del distruggere... E' lo spettacolo, ma è anche la vita, la nostra, consumata da un Potere sempre più chiuso in se stesso, sempre più Ubu nella sua scioccheria e nella sua cudeltà che tutto costringe nella botola...
La scena è un continuo divenire di gag dove il ridere libera tensioni liriche di grande efficacia una per tutte il dialogo con il cardellino, la guerra tenuta nel pianto dai soldati che soli si colpiscono prima di cadere, sul venire di un can-can... Poi la ginnastica oratoria che prova saluti, il baffetto, il sorriso largo e la foto con il caduto...: "Diffidate dai casamenti di grande superfice dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi..”. il monito che viene. Dopo, l'abbraccio e poi Gaber a offrire la trama teorica che chiede un cambiamento sostanziale dell'animale uomo per poter tornare a sperare...
*  *  *
Un ottimo, ottimissimo lavoro. Grazie! “Sei mesi di lavoro per sentirsi dire siete stati bravi" dice Mamma Ubu. E, il coraggio della fragilità diventa forza. Per tutti, lì dove la regola è quella del ferro e dei numeri!

mercoledì 17 aprile 2013

LA MALALINGUA DELLA POLITICA


Gigi MONTONATO

Mai viste e sentite cose del genere. Tra uomini di uno stesso partito scambi di insulti tremendi. Nel Pd è peggio che in Ruanda al tempo dello scontro tribale tra Hutu e Tutsi del 1994. L’ipotesi di candidare Franco Marini o Anna Finocchiaro alla Presidenza della Repubblica ha fatto mettere la lingua della festa a Matteo Renzi.
Non sono presentabili, ha detto; così come fa un regista quando scarta chi si presenta per una particina al film che si sta preparando ritenendolo inadeguato alla parte. A Marini non basta essere cattolico, la Finocchiaro non è degna del Quirinale dopo aver utilizzato la scorta per spingere il carrello della spesa all’Ikea. Di rimando fendenti di fuoco: Renzi è un miserabile. L’indecente gliel’aveva dato Bersani qualche giorno prima. Renzi ribatte: vogliono che io lasci il partito, ma questo favore non glielo faccio. Insomma il segretario del Pd ha ragione quando dice in polemica col Pdl: non siam mica tutti uguali. Invece, pare proprio di sì! Anzi no, ma non si sa quali siano e dove stiano i peggiori.
Questa elezione presidenziale sta aggravando la già precaria condizione di urbanità esistente. Tutti devono essersi convinti che l’insulto paghi. Sgarbi, Ferrara, D’Agostino hanno fatto tendenza. Ormai è una gara tra chi più e meglio la spara, senza riguardo alcuno per la decenza. Si stanno mettendo le basi per le dichiarazioni ipocrite del giorno dopo, quando il Presidente avrà sempre ragione, a prescindere. Non si sente la voce di un solo “saggio”, non di quelli chiamati da Napolitano a coprire dieci giorni di “dolce far niente”, ma di come li intendeva il filosofo Seneca. Nessuno che intervenga a calmare gli animi. Dovrebbero farlo soprattutto i tanti che sono considerati degni del Quirinale, ma che probabilmente il Quirinale lo possono solo visitare se invitati. Nessuno di loro pensa di dire: no grazie. Lo stesso Monti si è sfilato dalla sua formazione politica per un “non si sa mai”. Gino Strada, solitamente polemico col mondo, recentemente dice le parole come chi cammina su un terreno disseminato di uova, ben attento a non romperle.   
Politici esclusi dalla corsa e giornalisti si mettono tutti a dare colpi di machete contro il povero candidato. Appena spunta un nome, zac! e salta una testa. Alla Finocchiaro hanno rimproverato la gaffe delle bidelle a “Porta a Porta”, quando in un passaggio argomentativo ebbe la disgrazia di dire che le parlamentari non sono bidelle. Ed ha ragione – commentò Crozza – almeno quelle lavorano. Dobbiamo ridere?
Via, finiamola! Siamo stanchi di assistere ad uno spettacolo che mortifica. Non si può delegittimare un candidato per una sciocchezza. Sarà capitato a tutti di mettersi le dita nel naso. Un po’ di anni fa “il Borghese” riprendeva i parlamentari e i ministri in pose disdicevoli, o mentre sbadigliavano, o mentre sonnecchiavano, o con la mano alla brachetta. Immagini rubate a persone abitualmente molto composte e vigilate. Ma un conto è lo spazio umoristico-satirico di un giornale, un altro è servirsene per  danneggiare la persona. Un conto è “ludere”, un altro è “ledere”, come avvertiva un nostro giornale satirico di un secolo fa.
Renzi fa male a costellare la sua carriera politica, che è solo agli inizi, con episodi del genere. Se tanto dà tanto, i suoi colpi di machete di oggi gli saranno rivoltati contro domani. E non dà certamente l’immagine di un uomo nuovo, diverso dai politici precedenti. Si dirà, ma nella rissa non si bada se si calpesta il piede a qualcuno.
E’ un vero peccato che proprio chi si propone come nuovo e diverso presenti vizi peggiori di quelli dei vecchi politici. Lasciamo stare Grillo, che in fondo continua a fare il suo mestiere. Ma gli altri dovrebbero rendersi conto che occorre intraprendere un percorso diverso. Se no, casta o non casta, alla fine se si vuole una persona davvero decente e preparata, bisogna andare a prenderla da lì. Non a caso circolano con maggiore insistenza i nomi di Prodi, di Amato, di D’Alema, di Violante, per citare quelli più gettonati nel centrosinistra. Persone, che puoi anche non condividere ma, peccatucci veniali a parte, sono di sicura affidabilità non solo per il loro passato ma anche nella prospettiva di un alto e ancor più prestigioso incarico.
Anche in questo si avverte la pesantezza della crisi. Persone serie e preparate se ne vedono sempre di meno. Il tempo fa giustizia. In questi anni siamo vissuti di rendita, abbiamo attinto a piene mani agli uomini della Prima Repubblica o formatisi in quegli anni. Ma ora stiamo proprio raschiando  il fondo del barile.

lunedì 25 marzo 2013

Il Verri dei Fabbricanti di Armonie e di Simone Franco

“Fatevi poi dare un teatro, un qualcosa, raccontateci le cose più idiote, svestitevi, ubricatevi, pisciate all’angolo del locale...”. Così Antonio L. Verri nel manifesto poetico-politico del “Fate fogli di poesia poeti”. Quel desiderato teatro se lo prese, nel 1992, per ambientarci il suo grosso libro da amanuense: il Declaro. "Ballyhoo-ballyhoo" andava gridando. La “scatola” capace delle voci, tutte quelle che aveva cercato e trovato nei suoi lunghi anni di militanza, stavano tutte insieme - in fogli ripetuti 300 volte - nel grande foyer di via Candido, a Lecce, dove abitava e ancora abita Astràgali.
Adesso il Teatro s’è preso Lui: s’è preso Antonio Verri e le sue parole tonde.
Le sue inquietudini, il suo fiabare-poetando, il suo incanto. Le sue dannazioni si son fatte spettacolo, ad opera di Multidisciplinary Art, che per la rassegna Teatro a 99 Centesimi al Teatro Paisiello, domenica 24 marzo, ha portato in scena “Fabricanti di Armonie” con l’attore e regista Simone Franco accompagnato dai musicisti Admir Shkurtaj, Pino Basile e Pierpaolo Leo: un passo sonoro che ricorda l’amato John Cage a contenere il “versificare”, aperto dalla lettura di una lettera alla madre, portata dalla voce di Carla Guido.
E della madre, abbiamo sentito, dei misteri dello scrivere e della voce da portare nitida. Abbiamo saputo di Stefan, di Gienek e di Galateo. La parola s’è fatta canto, non ha tradito e ha osato scardinando il timore dell’oblio e, s’è un padre poetico c’è stato, adesso Bodini ha un figlio, se figli ci possono essere in “poesia”.
La “munda” di Simone Franco, ha attraversato una fortuna letteraria che rimane ancora in gran parte inesplorata, poco letta anche perchè poco editata...
Un piano metaforico frontale nel suo significare - quello di Antonio L. Verri - sfrontato e lesto nel menare il colpo, dove il  “...criare era criare” e l’urgenza della parola osava la voce. Masticando senso... oh! quanto a lungo, nel suo dettare il rigo, nel compilare la pagina. Era già teatro quella pagina. Romanzo-mondo, denso, magmatico, sempre generante perchè sempre  generato dallo stupore e speranzoso nei suoi esiti. Di questa pasta era (è) Antonio Leonardo Verri, come di mandorla. Amaro e dolce insieme nel giusto tenere le “partenze, le battaglie, l’indocile poeta, il grosso impaccio, il buffo del cuore, i sassi e il mare...”, quanta materia per cucire la scena. Quanto respiro.
L’applauso è venuto, copioso a premiare!
Giusto così. Giusto così!
“Son qui per i 99 centesimi, o son qui per Verri” chiede all’uscita l’emozionato  scudiero-fotografo del Poeta di Caprarica.
“Son qui per Verri”, ho risposto sicuro. “Il nostro amico s’è conquistato il pubblico. Avrà un suo pubblico.  Bisogna insistere come sinora s’è insistito”. Lui è lì, tra le strade di Guisness, e aspetta. Aspetta e poi “protegge”, quando accade protegge... Lo sapete no?, è un angelo!

sabato 2 marzo 2013

Cartoline - Lecce beddrhu che?

Sembrano storditi! Ad una settimana dall'esito elettorale, la "classe politica" italiana, sembra ancora non essere capace di riprendersi dalla batosta che i cittadini, le persone (che non sono più la gente), le ha sonoramente attribuito. Se non fosse che Beppe Grillo pare anche lui un suonato, si protrebbe sostenere che la rivoluzione è in atto. Il cambiamento - che molto spesso non ha mira  se non quella che si forma nella pratica quotidiana del costruire - sembra aver preso il passo: ma non c'è guida, non c'è comandante e nemmeno un medico capace di porre rimedio: la questione psichiatrica - com’è d’uso in Italia - regna sovrana! Alcuni invocano formule che non son capaci poi di sostenere nella realtà... Beato il nostro sindaco che si presta al set e beata Simona Manca che un pò l'invidia.  Beddhru Lecce Style gli ha incantati per la possibilità di promozione del territorio che offre. Sarà, io non capisco, e certo non rido!

lunedì 25 febbraio 2013

Elezioni 2013 - Il trionfo del Movimento Cinque Stelle

Inizio di pomeriggio da patema d'animo ieri: sembrava schiarire ed anche la Borsa, presa dall'entusiasmo dei primi istant poll buttava al bello. Poi... Brutta cosa l'istant, esposto com'è alla volubilità, alla fugacità, all’impermanenza. Poi, il patema del "forse si vince" s'è sostituito con lo sconforto: siamo in Italia e la nostra è nazione non politica, mi son detto, antropologicamente senza coscienza e senza capacità di riflessione.
Che presuntoso... Ma perchè, mi chiedo mentre scrivo, non è coscenzioso e riflessivo chi vota per un orientamento diverso dal tuo?
Già, mea culpa, mea culpa! Quello, rimane da fare, a sanare il peccato...
È vero, forse bisognerebbe smetterla di dare giudizio, di sentirsi quelli capaci di analisi, di disegnare prospettive, di avere la verità in tasca. Quella verità (se verità è) evidentemente non è gradita, non raccoglie consenso, anzi è percepita dai più con fastidio.Uno mi ha detto: "Voi di sinistra siete degli snob" e lo diceva convinto, nella sua concretissima superficialità.
Ancora giudizio? No! Quella "supeficialità", è conservarsi, lasciarsi a quella natura che fa la maggioranza del nostro popolo straordinariamente incapace di pensarsi autonoma, nella responsabilità della scelta, sempre bisognosa di un papà... a cui affidar le pene e i travagli...
Non è questo Berlusconi? Non è questo anche Grillo? Un capo in testa, un condottiero, un conducator... Politica e “sentimento” politico vecchio tutto affidato alla verve retorica del duce di turno e poco all'infusione di dovere civico...
Sempre in quell'istant di prima che per gli Italiani è il presente, lo stretto contingente che basta a colmare ogni frustrazione... Ancora!? Ancora giudizio?
***
Che presuntoso! Forse - me lo ripeto - bisognerebbe smetterla di dare giudizio, e in quell'"assenza", cercare di capire il perchè della vittoria del Movimento Cinque Stelle. L'unica grande straordinaria novità di queste elezioni.
Capire lo scardinamento, l'intenzione profonda di cambiamento che, le "persone politiche" del Cinque Stelle propongono! Uno scardinamento (retorico) certo più di tutti testimoniato dal Leader Comico ma che è nel desiderio di una maggioranza di Italiani che del "non ne possiamo più" fanno motivo di politica.
"Ho messo la mia piccola bomba nell'urna" confida qualcuno un’insospettabile Beppe che nulla ha a che fare con il modello del “grillino” disegnato da Silvio Berlusconi! E anche mia madre ieri, presa da interrogativi mi diceva: "Mo’ voto Grillo!"...
E' protesta, protesta soltanto o anche bisogno di una rappresentaza diversa?
Penso valga la seconda anche se poi, quella rappresentaza ancora non ha figure di riferimento. Le "persone politiche" del Movimento Cinque Stelle sono sconosciute ai più, dovranno, alla prova del Parlamento, prender le misure, divenire riferimento di un'elettorato che nella maggioranza dei casi ha votato per l'unico visibile: Beppe Grillo, che non siederà su nessuna poltrona esclusa quella che "governa" il suo blog.

giovedì 17 gennaio 2013

La Fòcara e l'arte di un novolese


"Nel Tempo" di Patrizio Quarta

I numeri dell'improbabile cabala di Ugo Nespolo hanno preso fuoco, l'anno scorso era toccato ai cavalli di Mimmo Paladino. Consumazioni di un rituale che, a detta di molti (di tutti quelli sentiti), ha perso i suoi legami con il passato. Prima, le fascine della Fòcara erano dono, costruzione e gara di popolo; adesso, c'è da pagarle e la pira, mi dicono, arriva più o meno a costare 100.000 euro, solo la pira...
Che volete farci, il tempo cambia e cambiano anche i modi della devozione, del far festa. Se prima poteva bastare un pò di carne cucinata con la carbonella raccolta intorno al grande fuoco - che non aveva mira d'essere il più grande del Mediterraneo che bastava il "crederci" a farlo grande – adesso, con la bulimia pervasiva dei sistemi, c'è solo da aggiungere e allora: chi più ne ha più ne metta di "carne" a cuocere tanto, ciò che rimane, poi si può sempre buttar via...
Ho citato prima due artisti, Nespolo e Palladino, importati dalla vanità di un pensiero critico che poco ha a che fare con il territorio, un pensiero solo utile a servire chissà quali urgenze di legittimazione...
Uno di artista, un novolese, è venuto a trovarmi nei giorni scorsi, Patrizio Quarta il suo nome. Scultore, uomo forte, di passioni e di mani che sanno cesellare nella pietra forme antiche. Come un respiro, che nelle sintonie del fare, riesce a trovare assonanze con il remoto del tempo, quasi che, le figure che poi porta in vita, siano in lui dormienti, cullate dalla memoria nel suo più remoto indeternimnato. Patrizio Quarta con una sua opera - "Nel Tempo", il titolo - è ospite a Palermo della Prima Biennale Internazionale d'Arte che accoglie 814 opere di 700 artisti tra il Loggiato San Bartolomeo, il Teatro Politeama, Villa Whitaker e la Galleria "Giuseppe Sciortino" a Monreale.
Un abbraccio è "Nel Tempo", un intreccio di mani che fanno carezza e accoglimento, quello, l'unico modo, per fare il cammino, per muoversi, per sperare il futuro. Un senso lieve, sospeso, trascendente curato con personalissime tecniche che danno luce e vita ai licheni che definiscono il piccolo "plastico" 30x28x15 cm, le misure.
Mi son chiesto - e ho chiesto - perchè non sia affidata l'idea della Fòcara ad artisti come Patrizio Quarta. Lui, alla domanda, s'è ritratto... in quella riservatezza tipica di certi caratteri salentini e mi dice: "Non c'è bisogno di sommare arte a ciò che è già opera! Le uniche insegne da aggiungere all'antica forma son solo quelle classiche, mi dice, quelle del Santo, l'Abate Antonio, che vengono issate sulla cima con il rito della bardatura, alla fine del lavoro che tesse le fascine e le innalza per portare il fuoco al cielo!".
Mi conforta Quarta, lui è al riparo dalle seduzioni, dalla voglia della paghetta per arrotondare la pensione delle "visioni", lui è un artista e protegge la sua arte rispettando l'arte e il suo popolo!